Nel giugno del 2002, il Museum of Modern Art che ha iniziato uno dei suoi periodici cantieri per rinnovare la sede di Manhattan – stavolta integralmente – fa un gesto che oggi suona quasi consueto, ma 20 anni fa sapeva proprio di riscrittura delle geografie urbane, anche a New York: sposta la collezione in una sede temporanea, a Long Island City, nel Queens. Un indirizzo non ancora di riferimento per il pubblico ampio – la gentrificazione di Brooklyn era appena agli inizi, quella del Queens nemmeno in vista, l’attuale MoMA PS1 era già lì vicino ma era un progetto alternativo con superfici ridotte – dove l’istituzione già aveva acquistato dei fabbricati ex-industriali, per collocarvi i suoi depositi. L’apertura ai visitatori del MoMA QNS – questo il nome che la sede ha poi conservato – costituiva un passo ulteriore verso un modo differente e innovativo di vivere la città e i suoi spazi in trasformazione, che da sempre ha contraddistinto la galassia indipendente nota come New York. Domus pubblicava il progetto nel settembre del 2002, su numero 851.
Provvisoriamente moderno
Il MoMA QNS, sede temporanea del Museum of Modern Art, riporta questa istituzione ricca e ben dotata ai suoi inizi spartani. L’architetto Michael Maltzan ha ristrutturato una parte di un vecchio complesso industriale situato in Queens, uno dei quartieri periferici di New York, sovvertendo la visione tradizionale del museo come spazio sacro: così fece a suo tempo, e con la stessa incisività, il primo direttore, Alfred Barr, che una volta descrisse il MoMA come “un proiettile lanciato a gran velocità attraverso la cultura”.
Fondato nel 1929 per far conoscere un tipo di arte da cui allora la maggior parte del pubblico americano rifuggiva, nel 1939 il museo fu spostato nella sua sede attuale della West 53rd Street a Manhattan. Ogni vent’anni circa, è stato intrapreso un ampliamento importante, e attualmente se ne sta raddoppiando la superficie, per arrivare a 65.000 metri quadrati. Attenuatosi via via lo shock della novità delle ristrutturazioni, folle sempre più grandi di newyorkesi e di turisti si snodavano lungo i suoi spazi vasti e articolati per godersi l’arte: ma non solo, anche per fare shopping, per mangiare, per assistere alla proiezione di un film.
I critici però lamentavano che il MoMA avesse perduto la sua anima e il suo mordente; quasi per risposta a questa accusa arrivò l’accordo con il P.S.1, il famoso centro alternativo ricavato dall’architetto Fred Fisher in una scuola pubblica di Queens. Gli artisti amano la libertà che offre questo spazio, ma i locali sono piccoli e non climatizzati. Ora l’intervento di Yoshio Taniguchi, che amplierà anche la sede storica della 53esima a Manhattan, permetterà di ospitare un numero maggiore di opere d’arte contemporanea: e forse conferirà agli spazi del MoMA quel senso di serena imponenza che i suoi ricchi soci-amministratori invidiano all’altra grande istituzione cittadina, il Metropolitan Museum of Art. Per i tre anni che dureranno i lavori di ristrutturazione, questi signori dovranno attraversare l’East River, per raggiungere un luogo che finora avevano degnato al massimo di un’occhiata dall’interno delle loro limousine, quando andavano all’aeroporto.
Per Michael Maltzan, il viaggio è stata l’idea ispiratrice del progetto e ha suggerito una partenza vivace e poi un graduale passaggio dalla monumentalità opulenta a quello che egli chiama un “paesaggio di mezzo”: ovvero un’anonima area industriale, in continuo cambiamento, inserita fra città e suburbio. Tempo fa il MoMA acquistò nel quartiere di Queens una vecchia fabbrica di 16.000 metri quadrati di superficie, da adibire a deposito decentrato delle opere d’arte; lo studio Cooper Robertson & Partners (autore del piano generale del museo) ristrutturò questo spazio, aumentandone le garanzie di sicurezza, creando un impianto di climatizzazione e mettendolo nelle condizioni di affrontare la crescita delle collezioni del museo per almeno trent’anni.
Successivamente, rivelatasi infruttuosa la ricerca di uno spazio sostitutivo a Manhattan, a un prezzo accessibile, per il periodo dei lavori di ampliamento della sede, i curatori si resero conto che la parte della struttura di Queens non occupata dai depositi, dagli uffici e da una biblioteca dedicata alla ricerca poteva servire benissimo allo scopo. Michael Maltzan, che per Frank Gehry era stato il progettista incaricato della Walt Disney Hall, prima di fondare un suo studio a Los Angeles, fu scelto per ristrutturare circa un quarto della superficie del vecchio complesso industriale, da adibire a gallerie di esposizione e a spazi di uso pubblico. Lavorando in una situazione non facile – la forma della struttura, che è una ‘scatola’ con poche aperture, e un budget di soli 3 milioni di dollari – Maltzan ha saputo creare i presupposti per offrire ai visitatori un’esperienza dinamica, dal primo incontro con l’edificio alla trasformazione di questo incontro attraverso il contatto con l’arte. I ‘segni’ sul tetto appartengono al vernacolare locale: sezioni dell’ormai storico logo del museo (disegnato da Milton Glaser negli anni Settanta e ora diventato l’abbreviazione più usata del nome) sono dipinte su pannelli situati attorno agli impianti tecnici sulla copertura.
La maggior parte dei visitatori scende a una stazione sopraelevata della metropolitana: quando i treni si inoltrano nella banchina, i frammenti del logo danno l’impressione ottica di spezzarsi e poi magicamente riallinearsi. Il ‘segno’ diventa così un’opera d’arte interattiva, ed esprime il concetto del movimento e della provvisorietà, oltre all’idea che l’identità del museo sta mutando. Per chi arriva dall’alto, il tetto è la facciata principale: alla sommità dell’anonimo contenitore, il ‘segno’ esprime il senso del luogo e ne dà un’anticipazione. L’edificio è stato rivestito con una seconda pelle, dello stesso colore blu con il quale erano stati dipinti i muri di mattoni della vecchia fabbrica, che l’aveva fatta diventare un landmark locale.
Dalla parete in cui si apre l’ingresso sporgono le intelaiature di sostegno dei tubi fluorescenti che nelle sere d’inverno creano uno ‘staccato’ di linee di luce. Lo spettacolo comincia sul marciapiede, come avveniva nei cinema degli anni in cui fu fondato il MoMA: la tettoia che sporge sopra il grande logo a tutta altezza (sabbiato su vetro e retro illuminato attraverso una vetrata esterna trasparente) ricorda la pensilina di un teatro. All’interno, la scansione geometrica ortogonale e le barriere fra percorsi di circolazione e spazi di esposizione si dissolvono. Le normali gerarchie spaziali, comuni alla maggior parte dei musei, sono assenti.
La tettoia si piega, le pareti si staccano e diventano schermi per proiezioni di video. La scala dall’angolazione un po’ forzata conduce a una rampa che sale snodandosi nell’atrio dall’alto soffitto, sfruttandone il volume, collegando lo shop, la caffetteria e altre strutture di servizio, e rompendo con la sua presenza l’accentuata orizzontalità dell’edificio. Il disegno delle ringhiere in maglia metallica aggiunge un altro elemento di movimento a quello del flusso dei visitatori. Il banco della biglietteria, un po’ arretrato, si trova sotto un mezzanino a spazio aperto, in cui si possono tenere conferenze. Le tre gallerie di esposizione si dipartono da questo spazio destinato ai progetti. Occupano la superficie originale della fabbrica (con pavimento di cemento armato) e sono servite da una piattaforma di carico e scarico che consente di far entrare e uscire le sculture di maggiori dimensioni. Le condutture e le tubature di servizio a soffitto sono lasciate a vista, mentre le pareti bianche originarie possono essere spostate e riconfigurate per facilitare i curatori nei loro esperimenti con le installazioni.
L’altezza dei soffitti e l’illuminazione sono comunque molto simili a quelle delle gallerie più grandi, che Taniguchi sta realizzando nella sede di Manhattan. Gli spazi nudi e flessibili non hanno nessuna pretesa, e servono bene le opere d’arte – in particolare, una selezione di grandi opere provenienti dalla collezione permanente del museo, che occuperà una galleria finché al suo posto non andranno, in febbraio, i pezzi forti della collezione Matisse/Picasso. Nelle altre due gallerie si possono visitare, fino a metà settembre, due mostre: “AUTObodies”, un’esposizione di sei importanti automobili recentemente acquisite dal MoMA; e “Tempo”, un’indagine multimediale sulla nozione del tempo.
Come è accaduto con l’amato Geffen Contemporary di Los Angeles (il garage trasformato senza grande spesa da Frank Gehry per durare soltanto il tempo di completare il Museo d’Arte Contemporanea di Isozaki) così sembra molto probabile che anche il MoMA QNS godrà di una lunga vita. Il museo ha anche un’opzione su un edificio vicino, da usare come ulteriore spazio di deposito: è evidente inoltre il vantaggio di poter offrire ai curatori e agli artisti la possibilità di scegliere fra spazi di diverso tipo, da quelli raffinati della sede di Manhattan a quelli nudi della sede decentrata; come pure è evidente l’importanza politica di inserire una presenza culturale così significativa in un quartiere prevalentemente operaio. L’Isamu Noguchi Garden Museum, l’American Museum of Moving Image e altre intrepide istituzioni pioniere di Queens trarranno beneficio dal prestigio del MoMA QNS e dall’aumento del numero di visitatori che esso genererà. Eppure Maltzan confessa da parte sua un atteggiamento ambivalente.
Benché ovviamente contento del plauso ricevuto, gli dispiace che questo spazio possa eventualmente trasformarsi da temporaneo a permanente e osserva: “veramente pensavo piuttosto a ciò che avviene nel caso di un’esposizione universale, che resta nella memoria della gente per molto tempo dopo che è terminata”. E – si potrebbe aggiungere – a volte succede che, come il padiglione di Alvar Aalto del 1939 a New York, finisca per godere di una intensa vita ‘postuma’.