“Volente o nolente l’umanità è diventata oggettivamente solidale”. Si può dire che attorno a questa affermazione, soprattutto alla molteplicità di sfumature semantiche dell’ultima parola, si sia concentrata molta della riflessione di Marc Augé negli ultimi decenni: sul rapporto cioè tra spazi, identità e relazioni, in un mondo che si stava facendo, questa volta anche nei fatti – materiali, politici, culturali, umani – globalizzato. Attivo fin dagli anni ‘70 con ricerche che indagavano l’autorappresentazione delle società, l’antropologo francese era diventato universalmente noto per aver creato il concetto forse in assoluto più capace di ritrarre un’epoca, il nonluogo, quello spazio dell’andare anonimo, non appartenente e possibilmente ripetibile in ogni dove, traducibile in aeroporti, alberghi, centri commerciali e così via (Non-Lieux, introduction à une anthropologie de la surmodernité, si intitola il suo libro del 1992).
E in uno scenario globalizzato dove l’appartenenza al sistema e alle sue connessioni – il globale – diventa “il dentro”, mentre è il locale a diventare “il fuori”, l’altrove, in uno scenario dove la determinazione spaziale ha un ruolo così importante, quale diventa il ruolo dell’architettura, del progetto, dell’arte? Augé si poneva questa domanda nell’editoriale scritto per Domus nel settembre 2006, uscito sul numero 895. Noi lo riprendiamo per ritrovare un pensiero fondamentale per l’evoluzione della nostra cultura contemporanea e per la comprensione della nostra società.
L'altrove e il qui
L'antropologia culturale, al suo debutto, utilizzava la nozione di "tratto culturale". Il tratto culturale poteva consistere in un’invenzione materiale (un modo di cuocere, una tecnica di cattura del pesce o della selvaggina, un ornamento del corpo) oppure immateriale (un rito, un dio, un’istituzione). La circolazione e la diffusione di questi tratti erano considerate una delle spiegazioni del cambiamento all'interno dei gruppi umani di tutto il mondo. Il punto era sempre sapere quali erano le parti da attribuire in questo processo rispettivamente alla 'diffusione' e all’evoluzione.
Nel mondo contemporaneo i termini della questione sono cambiati radicalmente. Dopo la colonizzazione non c’è più alcuna possibilità di riuscire a osservare l'evoluzione autonoma di qualunque gruppo umano. Volente o nolente l'umanità è diventata oggettivamente solidale. L'esistenza del mercato accelera la circolazione e lo scambio dei beni di ogni genere. L'appartenenza alla rete planetaria è condizione necessaria alla prosperità economica e alla dignità politica. Da questo punto di vista la richiesta di cui sono attualmente oggetto i grandi architetti mondiali (americani, italiani, francesi, norvegesi o altro) da parte di numerose città in ogni continente, oppure la pretesa dei paesi emergenti di controllare la tecnologia nucleare nascono dalla stessa logica.
Contemporaneamente diventa ogni giorno più difficile distinguere tra l’interno e l’esterno, l'altrove e il qui. Paul Virilio ha teorizzato questo aspetto della situazione cercando di caratterizzare il sistema della globalizzazione a partire da un'analisi della strategia del Pentagono americano. Con la globalizzazione, afferma in sostanza, il rapporto tra interno ed esterno si rovescia: l’interno è il globale, cioè il sistema e più precisamente le reti economiche ed elettroniche che ne costituiscono il fondamento concreto; l'esterno, reciprocamente, è il locale, nella misura in cui pretende di sfuggire alla logica del sistema. Si tratta di un'esternità provvisoria, nella prospettiva del sistema, sia che il locale a un certo momento si trovi condannato ad assumere i colori del globale collegandosi alla logica del mercato e alla rete della comunicazione, sia che la sua rivendicazione di esternità venga sottoposta progressivamente alle pressioni del sistema e perfino eventualmente all’esercizio della forza (come riassume l’espressione "diritto d’ingerenza").
Se le cose stanno così, si comprende come la questione dell’outsourcing possa rivelarsi più complessa di quanto non sembri: si tratta di un nuovo rapporto con gli altri e con la diversità del mondo o di una nuova forma di omologazione, cioè di dominazione? Per cercare di rispondere a questa domanda certamente occorre riformulare la domanda del qui e dell’altrove. Una delle grandi divisioni del mondo attuale è quella tra ricchezza e povertà, che non si riduce alla contrapposizione tra mondo sviluppato e mondo sottosviluppato, nel senso che esistono aree sottosviluppate nei paesi ricchi e settori sviluppati in certi paesi poveri. Ciò non toglie che la nostra epoca sia segnata da tutti gli sforzi dispiegati da numerosi individui provenienti dai paesi del Sud per accedere alla terra promessa del Nord. La questione dei diversi prestiti cui possono far ricorso i creativi dei settori dell’architettura, del design, della moda o della gastronomia è chiaramente una questione "di lusso" che si pone essenzialmente nella parte più sviluppata del mondo.
È sempre stato così. Nel Cinquecento il Rinascimento – italiano prima, francese poi – ha sperimentato un ritorno all’Antichità greco-romana che ha rivivificato la tradizione cristiana, anche attraverso apporti lontani (America, Africa, Cina) nei quali Lévi-Strauss ha potuto vedere la fonte della vitalità e del dinamismo europei di quell’epoca. Il ‘qui’, in questa prospettiva, era chiaramente l’Europa, e l’‘altrove’ il resto del mondo. Le cose sono davvero cambiate? Sì, nel senso che c’è sempre un centro del mondo, ma che esso si è demoltiplicato e in qualche misura deterritorializzato. La métacité virtuelle di cui parla Paul Virilio è fatta contemporaneamente dalle megalopoli del mondo (le più influenti delle quali si trovano principalmente, ma non esclusivamente, in America, in Giappone e in Europa) e dalle reti di scambio, di comunicazione e di informazione che le collegano. D’altronde oggi, in vari campi, si parla più volentieri delle città che dei paesi in cui si trovano. È quindi importante distinguere una situazione dall’altra. In un senso tutto circola, e si trova tutto dappertutto.
Così in Brasile etnie ritenute scomparse sono riapparse perché il governo brasiliano ha adottato una politica di concessione delle terre ai gruppi etnici socialmente costituiti. Individui meticci, dispersi e isolati, si sono riuniti e hanno reinventato, sulla base di ricordi e di improvvisazioni, regole comuni e rituali. Per le loro cerimonie spesso hanno fatto ricorso a oggetti circolanti sul mercato, il più delle volte di origine asiatica: e si tratta in questo caso proprio di una diffusione di ‘tratti’ materiali al servizio di una reinvenzione culturale. Il ritorno alle fonti si alimenta a fonti esterne. Senza dubbio qui non c’è nulla di veramente inedito e si può immaginare che i gruppi e i culti si siano sempre costituiti sulla base di un bricolage di questo genere. Il fatto nuovo è il carattere anche molto distante delle fonti: testimonia di una nuova organizzazione del pianeta.
Nel campo dell’architettura, dell’arte o del design (settori che si intersecano e in parte si sovrappongono) il gioco con le forme e gli oggetti distanti non è sottoposto ai medesimi vincoli. Procede da una scelta deliberata e acquista senso in ambienti privilegiati e coscienti delle immense possibilità offerte teoricamente e concettualmente dall’apertura del pianeta sotto ogni aspetto. Nasce da un eclettismo ispirato di vocazione umanistica, che si contrappone ai monopoli culturali e all’etnocentrismo. La difficoltà che incontrano i difensori di questo eclettismo, come tutti gli artisti d’oggi, è l'estrema elasticità del sistema globale, straordinariamente efficiente nel recuperare ogni dichiarazione di indipendenza e ogni ricerca di originalità.
Appena formulate, le rivendicazioni di pluralismo, di diversità, di ricomposizione, di ridefinizione dei criteri, di apertura alle culture differenti vengono accettate, proclamate, banalizzate e messe in scena dal sistema, cioè, in concreto, dai media, dall’immagine, dalle istanze politiche e d’altro genere. La difficoltà dell’arte, nel senso più lato, è sempre stata prendere le distanze da una situazione sociale che tuttavia deve esprimere, se vuole essere compresa dagli uomini e dalle donne cui si rivolge. L'arte deve esprimere la società (cioè, oggi, il mondo) ma deve farlo espressamente. Non può essere semplicemente un’espressione passiva, un aspetto della situazione. Deve essere espressiva e riflessiva, se vuole mostrarci qualcosa di diverso da ciò che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno, per esempio nei supermercati o in televisione. Le condizioni attuali rendono contemporaneamente più necessario e più difficile questo scarto tra espressione e riflessione, che riguarda chiaramente in primo luogo l'eclettismo paradossale del ricorso all’esterno in un mondo dove non esiste più un altrove.
Concluderò queste note con un esempio tratto dall’attualità più recente. Il Musée du quai Branly, appena nato a Parigi, attrae prima di tutto per il nome del suo architetto, come il museo di Bilbao. Fa appello alle tecniche più raffinate e alle mode più recenti (la parete vegetale). La decorazione delle sale dell'Oceania è stata affidata ad artisti aborigeni, associati così all’architettura degli interni; alcuni degli oggetti che vi sono esposti raggiungono cifre astronomiche nelle sale d’asta occidentali; altri sono d’uso quotidiano nei luoghi da cui provengono e possiedono solo un valore etnografico. Il problema, se mai, è che, grazie a questa mescolanza ricercata ed estetizzante dei generi e delle origini, il museo stesso diventa nella sua essenza un oggetto etnografico emblematico della nostra epoca.
Marc Augé è stato presidente della Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales dal 1985 al 1995. Responsabile della ricerca all’ORSTOM (Office de la recherche scientifique et technique outre-mer) fino al 1970, poi direttore scientifico presso l’EHESS, ha condotto numerose missioni in Africa, soprattutto in Costa d’Avorio e Togo. Dalla metà degli anni Ottanta ha diversificato i suoi campi di indagine, in particolare soggiornando a più riprese in America Latina e cercando di osservare le realtà del mondo contemporaneo nell’ambiente a lui più immediatamente prossimo (Parigi, la Francia).
Immagine d'apertura: Marc Augé (Giugno 2010). Courtesy Cl. Jean Jamin. @Charles Mallison