Dalle trombe d’ottone che collegano i suoni di piazza Gae Aulenti a Milano con quelli del livello inferiore, ai lampioni (per una piazza a Bergamo come per un museo a Gand) che aumentano di luminosità ad ogni nuova nascita negli ospedali dei dintorni, a lastre di scala architettonica che risignificano luoghi diversissimi (Quest’opera è dedicata alle ragazze e ai ragazzi che in questo piccolo teatro si innamorarono per il teatro di Peccioli, nel 1994, Tutti i passi che ho fatto nella mia vita mi hanno portato qui, ora per Siena o per Milano Malpensa) a cavalli scultorei che vegliano il valore del paesaggio assieme a tetti ricoperti d’oro, i lavori di Alberto Garutti degli ultimi decenni hanno dato intensità e materialità anche simbolica alla vita, al suo manifestarsi nello spazio, più specificamente: alla relazionalità, in una parola. La cifra spaziale, che dagli anni ‘90 ha fatto di Garutti uno dei più noti interpreti della public art, si legava anche alla sua formazione di architetto – si era laureato al Politecnico di Milano, dove aveva poi insegnato, come anche aveva insegnato allo IUAV e all’Accademia di Brera dove aveva tenuto la cattedra di pittura – e si rifletteva anche nel luogo fisico del suo abitare, dove confluivano le stratificazioni delle diverse fasi della sua biografia – e non necessariamente del suo processo creativo. Assieme a quelle di Vanessa Beecroft, Enzo Cucchi, Luigi Ontani e Michelangelo Pistoletto, Domus aveva visitato la casa di Garutti nel 2014, pubblicandone il racconto nell’aprile dello stesso anno, sul numero 979.
L’arte chiama il design. Alberto Garutto
L’abitare di Alberto Garutti è un viaggio. Infatti, in casa e studio a Milano ha una collezione di vecchie valigie acquistate qua e là, contenitori di storie diverse, valigie che sono come delle piccole case. Della valigia, più che l’esterno, è l’interno a interessargli, non già per l’idea di vuoto che ognuna ha prima di essere riempita, ma per la foderatura fatta di carta a disegni geometrici, floreali, una sorta di carta da parati.
Anche avere lo studio vicino alla ferrovia, memoria sironiana e boccioniana, evoca il viaggio, la lontananza. Gli piace perché “nessuno vi costruisce intorno, e vi cresce una vegetazione selvaggia di piante che hanno scelto di stare lì”. Le circostanze hanno fatto sì che non avesse mai casa e studio nello stesso luogo, ma anche la casa è studio, forse il primo studio, perché “è lì che nascono le idee, soprattutto di notte, come pure in auto quando viaggio, che è come essere in nessun luogo. Lo studio è invece il luogo operativo, dove le opere si precisano, un po’ come nella casa di campagna, dove vai e spacchi la legna”.
Per Garutti, casa e studio sono interfaccia con il mondo: “A casa, tanti anni fa, accendevo la televisione e mi relazionavo con il mondo, oggi avviene con Internet, tramite il quale abbiamo conquistato l’ubiquità, e la casa finisce per vivere tra questi livelli d’intimità e dinamicità articolate”. I suoi luoghi sono pieni di mobili tra cui sedie pontiane ed eamsiane, ma anche anonime, queste ultime a volte verniciate con colore fosforescente rivelano la loro natura d’opera d’arte quando spegniamo la luce, opere della serie Cosa succede nelle stanze quando gli uomini se ne vanno?
Ci sono anche i mobili d’affezione, storie di vita, in quanto appartenuti ai suoi genitori. Anche il pianoforte è quello che Garutti regalò al padre: “Un mobile speciale che mi ha influenzato molto anche nel mio lavoro. E poi armadio, comodini e il letto dove sono nato, tutti disegnati negli anni Cinquanta da Cassi Ramelli, collaboratore di Portaluppi. Ci sono dentro ancora i vestiti di mio padre che, fino a qualche tempo fa, indossavo. C’è il profumo Chanel di mia madre che ogni tanto annuso, pensando a lei”.
Poi ci mostra i nuovi progetti di opere, sono mobili: un armadio fatto di un solo foglio di compensato forato messo ad angolo, dietro il quale puoi nasconderti a spiare, favorendo una sorta di regressione infantile. C’è anche un tavolo con impiallacciatura orizzontale e verticale, che si può aprire a libro alzando i due piani, trovando vuoti colorati: è come guardare un paesaggio all’alba o al tramonto. E, ancora, due armadietti gemelli di ferro verniciato in colore fosforescente: devono stare separati, meglio se in case differenti, per creare una relazione l’uno con l’altro. Come fa la lampada in ceramica con due lampadine, una che illumina normalmente e l’altra che si attiva quando qualcuno passa nell’altra stanza, diventando così un rivelatore di presenze. Progettati per Design Gallery, “rivelano il lato segreto dell’abitare”.
Poi l’esterno, dove l’artista ha acquistato un terreno con un rudere in cui tiene tre asini che brucano l’erba: “È un terreno montuoso, che guarda sul lago, quindi non ho comprato un terreno, ma un pezzo di paesaggio”. L’asino è anche il soggetto plastico in scala 1:1 per il fronte di un camino che sta sotto la pancia dell’animale. Animale e vegetale s’intersecano nella vita e nell’opera come il vaso con pianta di Ficus Benjamin tipico di un certo arredo borghese anni Cinquanta, messo nella personale al PAC come segno di attenzione verso Ignazio Gardella, l’architetto del museo. Ma le piante sono pure quelle architettoniche, delle case che ha abitato e intarsiate nel piano del tavolo intorno al quale ci troviamo a conversare. In realtà sono parte di piante risultanti dalla sottrazione degli oggetti che stanno dentro le stanze, “in quanto spazio vuoto tra gli oggetti come potenzialità di diventare tutto”.