Formatosi nella sua terra di nascita, l'India, fin dai primi passi della sua carriera Balkrishna Vithaldas Doshi ha scritto con la sua traiettoria professionale un capitolo nuovo della storia dell'architettura: quello dell'architetto globale. Tra il 1951 e il 1954 era stato Infatti nello studio di Le Corbusier a Parigi per poi diventare responsabile dei suoi progetti a Chandigarh e Ahmedabad. Qui dal 1955 aveva poi aperto il suo studio, col quale, attraverso oltre sette decenni, ha progettato più di 100 architetture private e pubbliche nell'area indiana, vincendo l’Aga Khan Prize nel 1995 e il Pritzker nel 2018. Verso la fine degli anni ‘70 aveva cominciato a progettare per sé Sangath, lo studio di Ahmedabad che aveva aperto a Domus per una studio visit nel 2018 (uscita sul numero 1026 nel luglio di quell'anno). Un “animale” ibrido e fluido, come Doshi stesso aveva poi raccontato ancora due anni dopo a David Chipperfield, (Domus 1046, maggio 2020), una metafora dell'architettura e della vita:
“Il mio edificio non ha un vero terreno – non poggia su un basamento, non ha un tetto: è uno spazio aperto, con configurazioni differenti a livello della pavimentazione, che si trasforma completamente durante la stagione dei monsoni. Ti giri e vedi uno stagno, guardi il cielo e ti chiedi dove sia l’edificio. Non ero sicuro di quale tipo di animale avrei creato. Quando finalmente è apparso, mi sono chiesto se fosse corretto, se si trattasse di architettura. Ma la vita non è forse una cosa fluida, che ci fa sempre meravigliare e ci riempie di ammirazione? L’architettura non può essere come un corpo?”
L’idea del Sangath va ben oltre il tradizionale modello di luogo di lavoro. Siamo in un ambiente che identifica uno stile di vita, una visione laica e solenne di come dovremmo vivere e scambiare pensieri.
Balkrishna V. Doshi: Ho iniziato la mia attività nel 1956. Venivo dallo studio parigino di Le Corbusier e ricordo bene la targa sulla porta: un’unica riga che diceva “Le Corbusier”. Nient’altro. Lo stesso vale per Louis Kahn. Ma io vengo da un’altra cultura dove l’anonimato è altrettanto importante: se si è un po’ anonimi si ha occasione d’iniziare a lavorare, perché nessuno ti fa domande. Il secondo punto era: sono un architetto oppure una persona in collegamento con il mondo, l’ambiente, le altre persone?
In India c’è una scienza dell’ambiente detta vastu shastra, che io ho parafrasato in vastu shilpa: progettare per l’ambiente. Perché quando ci si presenta come una persona che parla dell’ambiente non ci sono confini. Non siamo categorizzati. Io non ero costretto alla microscala del design, ma piuttosto coinvolto in un’analisi più vasta di quel che ci sta intorno. Il fatto di non aver mai avuto una normale formazione all’architettura in realtà era un vantaggio: non avevo preconcetti né limiti al mio modo di agire.
Per cui il Sangath è fatto così: è un luogo aperto dove si svolgono un’indagine continua e uno scambio con le persone e con la vita.
Articolo a cura di Andrea Caputo.