Abbiamo intravisto Nanda Vigo all’Hangar Bicocca, a Milano, qualche anno fa, felice tra gli ambienti spaziali di Lucio Fontana, con cui ha collaborato negli anni Sessanta (in particolare all’opera Utopia). Classe 1936, e deceduta pochi giorni fa all’età di 83 anni, la pioniera, che non ha mai smesso di sperimentare, negli ultimi anni è stata più che mai amata da giovani designer, artisti, collezionisti e da chiunque prediliga le figure indefinibili, non inquadrabili in correnti o incasellabili in settori del sapere umano. Nanda Vigo è stata capace come pochi di integrare architettura, design e arte nei suoi spazi fatti di luce. Gli ambienti da lei creati sono luoghi onirici, sospesi nello spazio e nel tempo, che però non perdono mai la struttura razionale propria dell’architettura moderna. Gio Ponti è stato per lei, insieme a Fontana e a Terragni, un maestro da cui ha imparato l’arte totale ed eclettica di pensare lo spazio. Nelle pagine di Domus è possibile trovare alcune delle tracce del suo operato, tappe del percorso che ha portato una giovane milanese a diventare la figura mitologica che è diventata.
Il design intergalattico di Nanda Vigo
L’opera di Nanda Vigo è stata al centro di una importante riscoperta da parte di istituzioni, gallerie, giovani designer e collezionisti. Dall’archivio storico di Domus possiamo ritrovare alcune delle principali tappe del percorso che ha portato una giovane milanese a diventare una figura iconica.
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- Salvatore Peluso
- 17 maggio 2020
- Milano
Nel Febbraio 1965 troviamo pubblicato il progetto di un atrio di un condominio a Milano. Il singolare arredamento di questo spazio è un raro esempio di come opere d’arte contemporanea possano integrare validamente un ambiente architettonico. Il progetto presenta anche due opere di Fontana e Castellani. Uno dei suoi cronotopi, formato da lastre scorrevoli di cristalli satinati e stampati, risolve una delle pareti dell’atrio, facendo rifrangere e dilatare la luce naturale. Nello stesso numero (il 423) troviamo un altro suo progetto non realizzato, sperimentale e meno noto, per un “cimitero a torre”. Su Domus 451 troviamo alcuni degli innumerevoli aspetti dell’Ambiente cronotopico vivibile di Nanda Vigo, costruito alla Galleria Apollinaire a Milano: un cubo luminoso – con pavimento e soffitto riflettenti e pareti di cristallo e rodoid “accese” (i colori mutano) – in cui si penetra e ci si moltiplica, riflessi e capovolti. È la proposta di un’opera d’arte abitata, attraversata – non più un oggetto cui ci si pone di fronte – e completata dalla nostra stessa mobile presenza – dilatata cioè fino alla architettura.
Su Domus 470, Ettore Sottsass scrive: “Nanda Vigo per qualche ragione speciale, ha sempre avuto a che fare con faccende interplanetarie, con luci interplanetarie, con spazi interplanetari, con deserti di colore interplanetario, con i vuoti assoluti, con lo zero e deve essere perché rincorre anche lei, povera ragazza, quel sogno antico di salvarsi dalla mischia mettendosi in qualche angolo speciale. (…) Un angolo per guardare il cosmo che ad ogni modo non è certo quello della fantascienza (misto di avventura e programmi militari) e certo la Nanda Vigo non fa fantascienza. (…) Cerca l’asettico e l’intoccabile nelle zone fisiche, suggerendo che soltanto la materia diventa asettica e intoccabile, quando arriva asettica e intoccabile, quando arriva al fondo delle sue avventure, dato che alla fine tutto è stato corrotto e toccato, non c’è più niente da toccare, non c’è ragione, non vale la pena, non succederà più niente… Mi pare che queste sono le zone dove vorrebbe rifugiarsi la Nanda Vigo o per lo meno i posti dove indica che si dovrebbe andare o forse i posti dove pensa che ‘si finirà per andare’, se continueremo in questa corsa feroce al consumo totale e permanente, allo spreco, al male uso che si fa delle cose della vita, non si sa bene.”
Nel Giugno 1982 (Domus 629), Rosa Maria Rinaldi descrive un appartamento pensato insieme a Vincenzo Agnetti: “La prima impressione, che sarà anche l’ultima quando dalla stanza si esce, è quella di un progetto d’arredo e d’arte che gira tra oggetti tangibili e immagini virtuali in un percorso che non conosce soste, tempi e spazi. (…) Da progetto d’abitacolo reale a progetto d’arte virtuale. Il ricorso alla finzione allarga più di quanto si pensi, le possibilità limitanti dello spazio reale e fa muovere i passi in zone altrimenti vietate. (…) Il destinatario è colpito più dalle immagini impossibili – quelle riflesse, che dalla realta in cui si muove. L’immagine virtuale si fa credibile proprio perché inserita in un sistema di rapporti di forza tra oggetti e persone esistenti. Quest’arredo d’eccezione acquisisce una propria legittimazione funzionale: quanto più audace appare la finzione tanto più si è spinti ad indagare il terreno del reale.”
Alessandro Mendini intervista Nanda Vigo su Domus 653.
Alessandro Mendini: “Ti piace il ‘bel design’ italiano? Ti senti emarginata?
Nanda Vigo: Mi diverte molto che ci sia, molto firmato, non so in che misura ne faccio parte, l’emarginazione è un problema degli altri, sono un progettista occulto, formulo progetti e li lancio nall’aria, qualcuno poi li prende e li realizza; prima tra la formulazione e la realizzazione occorrevano alcuni anni, ora pochi mesi, qualcosa sta cambiando. È questo un processo che esiste da sempre ma al quale non si è lavorato coscientemente.”