Design degli anni '50
La mostra II design italiano negli anni '50 si è tenuta al Centrokappa di Noviglio (Milano) dal 26 settembre al 30 ottobre. La mostra, che si articolava in sei settori – disegno industriale, arredamento, oggettistica, grafica, moda e tessuti, ricostruzione di ambienti – è stata organizzata dal Centrokappa col patrocinio della Regione Lombardia e promossa dalle ditte: Anic, Arflex, Arteluce, Bassani Ticino, Cassina, Fiat, Kartell, la Rinascente, Olivetti, Piaggio, Poggi, Sambonet, Tecno, Zerowatt. In queste pagine pubblichiamo alcune immagini degli ambienti e delle opere esposte.
Fra i tratti neri abbiamo inserito opere (pubblicate da Domus) non presenti alla mostra ma che noi riteniamo significative per meglio comprendere il periodo. Fra parentesi abbiamo messo le date di pubblicazione in Domus. In questi ultimi tempi ci eravamo quasi rassegnati all'idea di una cultura milanese incapace di rivolgere la propria attenzione a quel vasto serbatoio di problemi culturali, sociali, ambientali e produttivi che il design ha contribuito e contribuisce, direttamente o indirettamente, a caratterizzare ed evolvere.
La mostra Il design italiano negli anni '50 non ha certo risolto la grave lacuna, ma almeno ha riproposto all'attenzione degli addetti ai lavori e dell'opinione pubblica in genere, questo settore produttivo che ha accompagnato e accompagna tuttora lo sviluppo della nostra società. Va riconosciuto cioè a questa mostra, e a chi l'ha sostenuta, il merito di risvegliare, di fatto, gli animi intorno al vasto settore culturale e produttivo che si è sviluppato nel dopoguerra soprattutto nell'area milanese e che ha poi coinvolto fenomeni culturali riferiti a una più vasta area sociale e territoriale.
Le paralizzanti gestioni 'politiche' nella quale è invischiata la Triennale, l'immobilismo dell'ADI, l'abbandono di qualsiasi iniziativa di 'ricerca' dovuta alle sempre più chiare esigenze di mercato espresse dall'industria del settore, una certa aria di 'restaurazione' di alcune riviste che fino a ieri si dimostravano aperte a correnti sperimentali e di avanguardia, l'assoluta indifferenza da parte di organi statali (regione e provincia) per lo sviluppo (meglio sarebbe dire nascita: in quanto non esiste ancora una scuola di design nell'Italia settentrionale) di strutture didattiche e di programmi culturali, sono i motivi fondamentali della paralisi di questa area creativa che coinvolge un sempre più vasto strato di operatori, produttori e consumatori.
Allestita da Andrea Branzi, Valerio Castelli, Massayuki Matsukaze, Paola Navone e Valentino Parmiani presso il Centrokappa di Noviglio (Milano) la mostra si presenta come un insieme di oggetti. Qualcuno ha scritto che l'esposizione era costituita da 'sedimenti di una cultura'; appare abbastanza chiaro che comunque l'intenzione dei curatori della mostra fosse quella di dimostrare, attraverso una somma complessa di oggetti, la vitalità creativa che precedette il boom economico degli anni sessanta.
È sufficiente, per questo, citare alcuni nomi come: Gio Ponti, Ignazio Gardella, Vittoriano Viganò, Carlo De Carli, i fratelli Castiglioni, Ettore Sottsass, Bruno Munari ... per riconoscere la 'qualità' e il valore dei prodotti esposti; prodotti che non hanno mai avuto una collocazione storica e che per i non più giovani che hanno visitato la mostra sono facilmente riferibili (forse con un piccolo sforzo) alla vita culturale ricca di fermenti di una Milano postbellica (riviste come Domus, Casabella, Stile Industria, la Triennale di Milano, la fondazione dell'ADI, il Compasso d'oro, l'Olivetti, la Rinascente ecc.). Rimane però difficile immaginare le reazioni dello spettatore che, non avendo vissuto quel periodo, o avendolo vissuto al di fuori di quelle che erano le esperienze dei cosiddetti designer di allora, guarda oggi l'insieme degli oggetti esposti nella mostra e non riesce a collegarli alla vita politica, culturale, letteraria e filosofica di quei tempi. Ma questi spettatori non colgono soprattutto uno degli aspetti più macroscopici che caratterizzò il lavoro di coloro che progettarono oggetti per l'industria: il rapporto con l'architettura. Non va dimenticato, infatti, che tutti i designer di allora erano anche e soprattutto architetti, che come Ponti, Viganò, Gardella e Caccia Dominioni svilupparono dei 'modelli' architettonici e delle linee di metodo progettuale che poi trasferirono in scala ridotta nella progettazione di oggetti.
È abbastanza difficile, se non impossibile capire le scelte tecniche e formali di una lampada o di un tavolino di Viganò senza conoscere la sua linea di lavoro legata alla corrente 'brutalista' che appare in tutta la sua chiarezza di linguaggio nella dimensione architettonica dell'Istituto Marchiondi (Baggio), le esperienze progettuali all'estero e in Italia con la torre Pirelli di Ponti. Ma nell'intenzione dei curatori appare chiaro come ci sia stata la volontà di escludere ogni rapporto con l'architettura cercando, in compenso, un aggancio con alcuni aspetti che vengono spesso e a torto considerati 'minori' come l'abbigliamento, la grafica, l'oggetto decorativo e artistico recuperati spesso e volentieri al di fuori dei semplici confini del buon gusto, per una visione complessiva, forse più popolare (direbbero i curatori della mostra) di quel periodo storico.
Tutti i designer di allora erano anche e soprattutto architetti, che come Ponti, Viganò, Gardella e Caccia Dominioni svilupparono dei ‘modelli’ architettonici e delle linee di metodo progettuale che poi trasferirono in scala ridotta nella progettazione di oggetti