Caricando di forte valore simbolico la sede dell’università, le progettiste irlandesi presentano alla città il volume scultoreo dell’aula magna, interrato nel suolo e svelato nel suo foyer attraverso una lunga vetrata sullo slargo urbano dell’ingresso.
Sopra questo basamento interrato di tre livelli, il piano alla quota stradale è sostanzialmente ‘permeabile’. Su di esso – costituito da una sequenza di spazi pubblici e cortili rivolti verso l’interno o l’esterno (che svolge la funzione di passaggio urbano) – sono sospesi volumi compatti e articolati che si elevano per sei piani.
Negli spazi di ricerca la luce proveniente da est è filtrata con elementi traslucidi.
L’intero complesso, che occupa un lotto rettangolare di 160 metri per 70, è completamente rivestito con ceppo di Grè, una pietra lombarda che ricorre sulle facciate di molti edifici milanesi e quindi un tributo alla città stessa.
Ampliamento dell’Università Bocconi
Caricando di forte valore simbolico la sede dell’università, le progettiste irlandesi presentano alla città il volume scultoreo dell’aula magna, interrato nel suolo e svelato nel suo foyer attraverso una lunga vetrata sullo slargo urbano dell’ingresso.
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- Via Röntgen, Milano MI
- Grafton Architects
Pubblicato in origine su Domus 909 / dicembre 2007
Ultimo monumento a Milano
Dopo un viaggio in America negli anni Trenta, Le Corbusier osservava, con un certo stupore: “Ogni college o università è un’unità urbana in sé, una piccola o grande città”.
W.J. Mitchell, Imagining MIT, Cambridge 2007
Chissà cosa deve aver pensato Giuseppe Pagano nei giorni dell’agonia al Konzentrationslager di Mauthausen, primavera 1945: tra gli sforzi mentali e fisici per sopravvivere, sarà forse balenata ai suoi occhi l’immagine dell’Università Bocconi, finita di costruire – insieme a Predaval – poco prima di partire volontario per l’Albania. Da un nitido, non attribuito servizio fotografico che appartiene agli archivi Bocconi, appaiono le immagini di un progetto liberamente modernista, curato maniacalmente nei dettagli fin nell’interno, nei mobili che ricordano quelli di Aalto, negli spazi ariosi, nella ricerca d’incontro con altre arti e artisti, come Arturo Martini con i suoi leoni neomedievali che presidiano – curiosamente rivolti verso l’interno – l’ingresso dell’Università. Già dal 1938 disperato per le sorti dell’urbanistica a Milano (la città “bombardata dagli sventramenti”), Pagano le lascia in eredità un esercizio costruttivo essenziale – elevato in facciata su sottili pilastri quasi solo a sfiorare il suolo dell’area, vicina al vecchio canale Vettabbia: un ultimo brandello dell’originaria identità periurbana milanese, fatta di piccole diversità paesaggistiche – l’acqua, i campi, le cascine – destinata presto a sparire per sempre sotto i colpi della speculazione edilizia, per tradizione (in)civile qui feroce più che altrove. Involuto segno grafico in pianta, incerto tra l’omaggio al Bauhaus e un monumentalismo leggero, il primo complesso Bocconi rimane aperto verso il Parco Ravizza, monumento anche al sacrificio del suo progettista. Dopo anni di alterne vicende, con qualche punta di genio come gli edifici di un ‘altro’ Muzio (padre e figlio), il campus si estende verso il centro, fino a viale Bligny: rue corridor deprimente che meriterebbe l’abbattimento – ora che su casette e casone senza qualità si staglia la grande scultura costruttivista di Grafton Architects. Shelley McNamara, Yvonne Farrell, i loro entusiasti collaboratori e un altrettanto entusiasta committente sono gli autori di una nuova, vera architettura contemporanea che finalmente Milano [...] si trova a poter vantare nel panorama internazionale. [...]. McNamara e Farrell nel 2001, allora vere outsider, hanno vinto il concorso internazionale bandito dall’Università Bocconi: non con uno degli inutili blob che tempestano le pagine dei settimanali femminili evoluti, ma con una lezione di geometria generativa, incurante delle polemiche insulse tra reale e virtuale, disegno a matita o al computer, città generica o città qualunquista. Perfino più coraggiose dello stesso Pagano – troppo preso dai suoi contorcimenti ideologici, dal voler essere assolutamente moderno sotto la bandiera di un regime retrivo – Grafton Architects sfondano in ogni direzione le barriere, fisiche e concettuali, della gabbia ortogonale in cui il loro predecessore si è rinchiuso. Verso l’alto – con i blocchi vitrei degli uffici per mille tra docenti e collaboratori, esperimento audace di democrazia spaziale che cerca di dare a ognuno degli occupanti luce e aria in quantità e qualità omogenea; verso il suo stesso interno – aprendo canyon di luce agli spazi di comunicazione e d’incontro, sollevando scale che s’incrociano a perdita d’occhio; verso il basso e verso la città – scendendo (con le fondamenta) fino a sedici metri di profondità, facendo spazio nel sottosuolo per l’enorme spazio dell’Aula Magna, per poi nuovamente risalire verso l’esterno, protendendo l’edificio in un gigantesco blocco futurista verso l’angolo tra via Röntgen e viale Bligny, trasformato in luogo urbano, macchina illusionistica tra interno ed esterno grazie al riflesso della grandissima parete vetrata che proietta le immagini degli edifici intorno. L’ammirazione e lo studio dedicati da Grafton Architects alla specificità dell’architettura milanese per progettare e realizzare la nuova Bocconi non ha impedito loro di esprimersi in una composizione fortissima: che non nasconde una vera capacità di ‘scolpire’ lo spazio urbano, di saper dare alla città un ultimo monumento, nel senso più nobile del termine. [...]