Nessun discorso su Beirut può prescindere dal rapporto tra distruzione e memoria: come a Berlino, e in altre città dalle vicende altrettanto tormentate, la storia delle ricostruzioni coincide in maniera impressionante con il sistematico tentativo di rimuovere i segni della passata violenza. “Nel 1993 sono tornato a Beirut. Il centro della città, abbandonato a profughi e derelitti, era un luogo desolato. L’amnesia diffusa del dopoguerra era quasi peggio degli anni di guerra, con una popolazione scontenta e volontariamente anestetizzata”. L’artista e architetto libanese Nadim Karam, fondatore dell’Atelier Hapsitus, ha disseminato nella città decine di sagome antropomorfe o zoomorfe, icone legate da un nesso enigmatico, concepite per attivare nella popolazione un immaginario sopito, per creare sogni. Gli Urban Toys, simili a ombre solidificate, dovevano rigorosamente appartenere alla sfera dell’effimero: esposti sui tetti e nelle strade di Beirut per un periodo di circa tre anni, apparivano e sparivano in continuazione, cambiavano di posto, spuntavano a gruppi o divisi in luoghi imprevisti. La loro presenza era espressamente antimonumentale, un manifesto contro l’arte di propaganda, la “scultura in piazza”. La relazione di queste opere con lo spazio pubblico ricalcava le modalità stranianti e parassitarie della street art, depurate però della componente aggressiva, dalla retorica della guerriglia. La passione di Karam, infatti, è interamente rivolta alla creazione poetica, alla tessitura di storie: “Distruzione e creatività non sono mai sullo stesso piano; entrambe operano a partire dal vuoto, l’una servendosi del nichilismo per sopprimere la libertà di pensiero, l’altra usando l’assurdo come base del racconto”. Le sue sculture sono segni suscettibili di diverse interpretazioni, ricomponibili secondo tracciati complessi che boicottano la violenta semplificazione dei simboli religiosi e identitari. Dopo Beirut, Karam ha installato nuove sagome a Londra, Tokyo, Melbourne, e soprattutto nella giapponese Nara, sul lago che fronteggia l’antico tempio buddista Todaiji, dove il cortocircuito tra luogo e memoria ha raggiunto un’intensità forse mai ottenuta nei contesti urbani. Opere documentate in un volume, Urban Toys (Booth-Clibborn Editions, Londra, 2006), che somiglia a sua volta più a un’opera d’arte che a un libro. Insieme ad Arup, l’Atelier Hapsitus ha elaborato il progetto di un ponte pedonale che collega la Marina di Beirut con il centro della città. Con i suoi cinque percorsi che si sovrappongono e si intersecano a più riprese, il Net Bridge traduce in architettura il meccanismo narrativo messo in atto dalle sculture: un attraversamento che non permette una scelta univoca, ma impone deviazioni e incontri accidentali. Secondo il programma, il ponte dovrebbe essere costruito entro il 2008. Guerra permettendo.
Nadim Karam. Urban Toys
da Domus 900 febbraio 2007Sagome antropomorfe o zoomorfe concepite per attivare sogni. Giochi urbani come bombe di pace. Le sculture dell’artista e architetto libanese ‘minano’ le città con il potere della creatività
Nessun discorso su Beirut può prescindere dal rapporto tra distruzione e memoria: come a Berlino, e in altre città dalle vicende altrettanto tormentate, la storia delle ricostruzioni coincide in maniera impressionante con il sistematico tentativo di rimuovere i segni della passata violenza. “Nel 1993 sono tornato a Beirut. Il centro della città, abbandonato a profughi e derelitti, era un luogo desolato. L’amnesia diffusa del dopoguerra era quasi peggio degli anni di guerra, con una popolazione scontenta e volontariamente anestetizzata”. L’artista e architetto libanese Nadim Karam, fondatore dell’Atelier Hapsitus, ha disseminato nella città decine di sagome antropomorfe o zoomorfe, icone legate da un nesso enigmatico, concepite per attivare nella popolazione un immaginario sopito, per creare sogni. Gli Urban Toys, simili a ombre solidificate, dovevano rigorosamente appartenere alla sfera dell’effimero: esposti sui tetti e nelle strade di Beirut per un periodo di circa tre anni, apparivano e sparivano in continuazione, cambiavano di posto, spuntavano a gruppi o divisi in luoghi imprevisti. La loro presenza era espressamente antimonumentale, un manifesto contro l’arte di propaganda, la “scultura in piazza”. La relazione di queste opere con lo spazio pubblico ricalcava le modalità stranianti e parassitarie della street art, depurate però della componente aggressiva, dalla retorica della guerriglia. La passione di Karam, infatti, è interamente rivolta alla creazione poetica, alla tessitura di storie: “Distruzione e creatività non sono mai sullo stesso piano; entrambe operano a partire dal vuoto, l’una servendosi del nichilismo per sopprimere la libertà di pensiero, l’altra usando l’assurdo come base del racconto”. Le sue sculture sono segni suscettibili di diverse interpretazioni, ricomponibili secondo tracciati complessi che boicottano la violenta semplificazione dei simboli religiosi e identitari. Dopo Beirut, Karam ha installato nuove sagome a Londra, Tokyo, Melbourne, e soprattutto nella giapponese Nara, sul lago che fronteggia l’antico tempio buddista Todaiji, dove il cortocircuito tra luogo e memoria ha raggiunto un’intensità forse mai ottenuta nei contesti urbani. Opere documentate in un volume, Urban Toys (Booth-Clibborn Editions, Londra, 2006), che somiglia a sua volta più a un’opera d’arte che a un libro. Insieme ad Arup, l’Atelier Hapsitus ha elaborato il progetto di un ponte pedonale che collega la Marina di Beirut con il centro della città. Con i suoi cinque percorsi che si sovrappongono e si intersecano a più riprese, il Net Bridge traduce in architettura il meccanismo narrativo messo in atto dalle sculture: un attraversamento che non permette una scelta univoca, ma impone deviazioni e incontri accidentali. Secondo il programma, il ponte dovrebbe essere costruito entro il 2008. Guerra permettendo.