Se spingersi oltre i propri limiti è una propensione dell’uomo dai tempi di Icaro, costruire ad alta quota – in particolare al di sopra dei 2.000 m s.l.m., secondo un limite non scientifico ma indicativo di un contesto ambientale particolarmente complesso – è una pratica che si è diffusa soprattutto in tempi recenti, con lo sviluppo del turismo e dell’innovazione tecnologica.
La costruzione in altitudine ha una duplice valenza: se da un lato è un’equivocabile affermazione narcisistica di conquista (di una vetta o di proprie capacità fisiche e mentali), dall’altro è una ammissione della fragilità dell’individuo in rapporto alla natura di cui, senza cedere al pessimismo leopardiano che la vuole “matrigna”, resta comunque ospite minuscolo e temporaneo. E proprio per sopravvivere a questa condizione, al di là dell’aspetto romantico ed emozionale che il contatto con la natura comporta, è soprattutto l’ingegno ad essere chiamato in causa per ideare soluzioni insediative adatte ad ambienti ostili: dalle tradizionali e semplici architetture in legno di un tempo (Chacaltaya Ski Resort), alle contemporane e più raffinate tecnologie basate su una spinta prefabbricazione, su un’efficace gestione logistica, sull’impiego di materiali innovativi ed ecologici e su soluzioni off-grid che rendono più sicura e meno impattante la presenza umana sulle vette.
Così che siano rifugi, bivacchi, ristoranti, opere d’arte o luoghi di cultura, le architetture sulle cime raccontano tutte, seppure con linguaggi diversi, la stessa storia di avventura e intraprendenza: dalle costruzioni letteralmente integrate nella roccia (Zaha Hadid Architects) o sfacciatamente anti-mimetiche (Gentilcore e Testa), a quelle ispirate al genius loci (Rifugio Mollino, MacKay-Lyons Sweetapple Architects, Archermit, Martino Gamper, Museo dell’Asia Centrale a Leh) o minimali (Koncheto Shelter, OFIS arhitekti, Skylodge Adventure Suites).