Dopo avere deciso di arrampicarsi su un albero del giardino dichiarando di non volerne più scendere, il protagonista de “Il Barone Rampante” di Italo Calvino finisce per spostarsi deliberatamente solo attraverso boschi e foreste e costruirsi una propria dimensione esistenziale sugli alberi.
Senza ovviamente spingersi ad un’idea parossistica di fuga e negazione della vita reale, questo rapporto non solo estatico-contemplativo in senso romantico ma anche profondamente funzionale e prosaico con la Natura è un leitmotiv che guida, nella storia recente, l’opera di molti celebri architetti che hanno inteso il paesaggio non come semplice “quinta scenica” ma come parte strutturante e fondativa della progettazione e del modo di vivere e di abitare.
Case tra gli alberi letteralmente “in punta di piedi” per ridurre l’impronta costruita (Mendes da Rocha, Butantã House; Perugini, Perugini, De Plaisant, Casa sperimentale; Lacaton & Vassal, Casa a Cap Ferret; Go Hasegawa & Associates, Pilotis in a Forest House); case che sono un “medium” per percorrere e sperimentare la natura (Glenn Murcutt, Simpson-Lee House; SANAA, Grace Farms River Building) e che sono concretamente integrate in questa (Frank Lloyd Wright, Fallingwater; Aires Mateus, Casa a Monsaraz); opere in cui il contesto sprigiona un’aura vagamente “animista” (Asplund e Lewerentz, Cimitero nel Bosco di Stoccolma) e in cui il costruito trae dalle forme e dall’energia dalla Natura nuova linfa vitale (Ricardo Bofill, Fàbrica) e strumenti di sostenibilità (Renzo Piano Building Workshop, California Academy of Science). A dimostrare forse, con il “barone rampante”, che tra il cinguettio degli uccelli e lo squittire degli scoiattoli tra le foglie, l’idea di un “nido” in cui trovare realmente pace e rifugio – e forse sé stessi – non è poi così folle.