Secondo Borges il deserto è un luogo in tutto assimilabile ad un labirinto in quanto rappresenta un’allegoria della complessità del mondo, la cui intelligibilità non è afferrabile attraverso la sola ragione. E il Parco Nazionale di Joshua Tree nel sud della California, e il paesaggio che lo circonda, con le sue spettacolari formazioni rocciose, la rossa terra del deserto e l’immensità dei suoi cieli stellati sembra un grande vuoto in cui è facile perdersi se non accompagnati da una coscienza – dell’Uomo e della Natura – diversa rispetto a quella che caratterizza gli ambienti antropizzati: qui, l’architettura si introduce come un’”intrusa” che deve fare i conti con un equilibrio secolare quasi sovrumano.
Molti architetti si sono cimentati nella realizzazione di abitazioni nel deserto: interventi simbiotici con il paesaggio (Joshua tree boulder house, Bonita Dome, Invisible House) o che si distaccano deliberatamente dal contesto (Rosa Muerta); che evocano inquietanti suggestioni zoomorfe (Kellogg Doolittle House) o volumetrie astratte e ascetiche (Joshua Tree Residence); che interpretano l’architettura come segno del territorio a cui l’opera costruita si rapporta rispettosamente per forme e colori (Monument House, Folly). Per quanto ci si senta minuscoli in rapporto alla vastità, anche psicologica, dei suoi spazi, il deserto – come suggerivano gli U2 nell’album The Joshua Tree – è una fonte inesauribile di fascinazione dove trovare, lontano da tutto ciò che il mondo a volte propone di orribile, una via di fuga, una libertà, una felicità nel nulla.