È il 1968. Siamo a Milano, in zona Crocetta, all’ultimo piano di una “vecchia casa quasi popolare”[1]. Qui lo scultore Arnaldo Pomodoro, dopo aver raggiunto il meritato successo, acquista una soffitta anonima e la fa sopraelevare per ricavarci uno spazio di appoggio: non una casa, non un vero e proprio luogo dell’abitare, ma uno spazio vuoto per accogliere clienti e amici, per organizzare eventi mondani.
Uno spazio per vivere una vita veloce, metropolitana, “dove si fanno telefonate per inviti e per appuntamenti, dove si legge il giornale intanto che si mangia e dove si dorme tra una festa e una partenza con l’aereo, dove ci si incontra con i VIP che sono la mafia dell'intelligentia internazionale ecc.”[2]. Un luogo, insomma, senza atmosfera affettiva, senza le memorie di chi la abita, che rispecchi l’anima di un professionista che non cerca quell’idea di vita, di serenità e di humour tipica dell’opera di Sottsass. Allora l’architetto pensa per L’Arnaldo (è così che lo chiama) una casa priva di colori, “un po’ metafisica”[3] e “un po’ entropizzata” per rispettare la natura di questo luogo, un luogo per “stare” e non per vivere”.
Con l’aiuto del giovane architetto napoletano “calmo e barbuto”[4] Bruno Scagliola e il falegname Giuseppe Baraldi, trasforma questa soffitta in un posto speciale, anche senza intimità e sentimenti, “uno spazio silenzioso sopra la nuvola di nafta, sopra la nebbia e l’ombra delle strade cittadine per stare seduti con le gambe incrociate, gli occhi chiusi e i due pollici uniti ai due indici, nel mura antico, per meditare su se stessi e sulla propria vera o irreale posizione, intanto che il mare della città continua a sbattere le sue onde di rifiuti, contro il tempo”[5].
Protagonista del progetto è la scala attrezzata che parte dalla porta d’ingresso e arriva fino alla camera da letto, o meglio, fino alla stanza del riposo. Realizzata in palissandro, è annunciata all’entrata da un sopralzo, sempre dello stesso legno, che contiene cassetti per organizzare al meglio lo spazio. La scala è un vero e proprio elemento di arredo che si trasforma in un mobile con scaffali e armadietti. Al suo interno nasconde un ripostiglio e il contrappeso del tavolo da pranzo in marmo, sostenuto a sbalzo da due mensole.
A eccezione della parete di fondo al sopralzo, realizzata in Oland (graniglia di marmo bianco annegata nell’intonaco), il resto del soggiorno – porta d’ingresso, soffitti e pareti – è ricoperto da un sofisticato sistema di pannelli in laminato plastico bianco, mentre il pavimento è in feltro marrone. Anche la biblioteca, vicino l’ingresso, è realizzata con lo stesso tipo di pannello, alternato a una lamina forata cromata, la stessa che Sottsass utilizza nelle aperture delle finestre per coprire i termosifoni. Nella biblioteca la griglia serve per nascondere gli altoparlanti del magnetofono, del giradischi e della filodiffusione, apparecchi contenuti all’interno del mobile insieme ai dischi e a un vano con attaccapanni.
Interessante la soluzione che Sottsass pensa per le finestre: alla classica tenda preferisce un vetro smerigliato che scorre dietro il rivestimento in laminato plastico delle pareti. Salendo il mobile-scultura-scala si arriva nella stanza da letto, con le vecchie travi delle capriate del tetto lasciate a vista. In camera c’è forse l’unico azzardo di colore dell’architetto, ovvero il piano di piastrelle dorate pensato per l’esposizione di oggetti, soprammobili, sculture, poi un piccolo scaffale per i libri e un armadio pieno di cassetti che ricorda l’arredamento di un’antica farmacia.
Il bagno, l’unico della casa, è completamente rivestito in granito bianco e grigio finemente cartellinato. Alla casa, scrive Sottsass, “ho tagliato di dosso le cose che si pensa possono germinare e l’ho lasciata lì, come gli alberi d’inverno quando gli tagliano tutti i rami che si dice: “porca miseria li hanno ammazzati”, invece poi con la primavera appieno piccole gemme verde chiaro nei posti più impensabili e si dice accidenti, è bestiale, non è morto, l’albero si riempirà di foglie”[6].
Una soluzione, quella per Arnaldo Pomodoro, difficile da declinare e adattare alle esigenze dell’abitare di un qualsiasi altro utente. Eppure, fortunatamente, una volta venduta la casa, l’acquirente dell’immobile, architetto di professione, ha avuto la sensibilità di non modificarla in alcun modo. A causa di un impegno lavorativo, costretto ad abbandonare la città, l’architetto ha messo in vendita la soffitta curandosi di trovare un nuovo proprietario in grado di comprendere, e vivere, la casa.
Così a oggi, l’attuale inquilina ne ha conservato lo stato originale, adattandosi a lei, descrivendo la vita in questo “posto in città”[7] come una vita “sopra una barca”. In effetti, la risalita sul mobile-scultura-scala fino alla stanza da letto, gli oblò sulla porta del bagno, le dimensioni e le altezze discrete di questo spazio, ricordano un design navale e nautico. La proprietaria si è affidata a un artigiano locale per sistemare e sostituire le parti danneggiate (i pannelli, in particolare, avevano subito una deformazione e si erano incurvati). Un lavoro oneroso, poiché per cambiare anche un solo pezzo di questo sistema di tamponamento, è necessario smontare quasi tutta la struttura, partendo dal soffitto.
L’ambiente “secco e tirato”[8] di Pomodoro è stato travolto dal calore dei sentimenti di chi la vive senza intaccarne la natura, una vita adattata a questo prezioso progetti di interni, nato dalla collaborazione tra due grandi uomini. E così mentre ci troviamo spesso a versare lacrime amare davanti alla distruzione di progetti, alla conversione e alla modifica dei lavori dei grandi architetti, alle volte si ha la fortuna di trovare preziosi gioielli, nascosti nei piani alti del centro di Milano, dove il tempo sembra essersi fermato.
Fonti e riferimenti: E. Sottsass Jr., Un posto in città, in Domus n. 464, July 1968, pp. 29-38.
E. Sottsass Jr., La casa metafisica di Arnaldo Pomodoro, in «Vogue Italia», April 1968, pp. 160-163.