In quella “trilogia dell’incomunicabilità” con cui Michelangelo Antonioni all’inizio degli anni ’60 ha trasformato per sempre il modo di fare cinema, due grandi pilastri creano la struttura insostituibile di tanta rivoluzione. Uno è lo spazio, diciamo pure l’architettura: dalla metafisica barocca della Sicilia de L’avventura, per poi arrivare a L’Eclisse con la sua Roma fresca di completamento nelle palazzine dell’Eur, si passa per la “Milano che sale” de La Notte.
L’altro, gli attori: l’insondabilità di sguardi che in quegli anni renderà Monica Vitti un monumento alla sospensione esistenziale, Jeanne Moreau con le sue apatie apparenti, Marcello Mastroianni che con la sua presenza, sarà per l’abitudine, sembra conferire un valore onirico a tutti gli spazi dove i registi lo collocheranno, che si tratti delle infinite Rome felliniane da Dolce Vita e Otto e Mezzo, di quella alla Scola in Una giornata particolare, o della Torino-Fiat alla Comencini per La donna della domenica.
Quando Mastroianni ha fatto scoprire al mondo che Milano è una città moderna
A 100 anni dalla nascita di un’icona del cinema come Marcello Mastroianni, seguiamo lui, Jeanne Moreau e Monica Vitti in La Notte, un film che è un manuale d’architettura, tra Gio Ponti, Vico Magistretti, e le torri di una Milano in trasformazione.
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- Giovanni Comoglio
- 26 settembre 2024
La Notte, del 1961, resta il film in cui questo dono resta in assoluto più legato all’architettura, anzi si può dire che la prima mezz’ora sia un compendio di architettura moderna milanese, a partire dai titoli di testa, che per sfondo grafico usano nulla di meno che la facciata di un Grattacielo Pirelli prossimo all’apertura, che lascia intravedere la stazione Centrale, riflettendo invece il tumultuoso vuoto di quel Centro direzionale, che sembra pronto a farsi, ma non si farà.
Come molti registi amano fare, e in particolare coerenza con quell’esprimersi solo per frammenti di pensiero, apparentemente non conseguenti, che caratterizza tutti i personaggi, Antonioni disegna sulla Milano de La Notte un itinerario che non ha quasi nessuna continuità nella mappa cittadina, e la acquista solo nella sequenza film, lanciando naturalmente ricercatori e communities di appassionati alla caccia delle singole location negli anni.
La partenza della vicenda-non vicenda, delle derive piene di spleen inspiegato dello scrittore Giovanni Pontani (Mastroianni) e di sua moglie Lidia (Moreau) è proprio tutta condensata attorno al Centro direzionale, quel quartiere tra le due stazioni, Garibaldi e Centrale, che secondo il piano regolatore del 1953 avrebbe dovuto costituire il centro di gravità di città e hinterland, portandosi dietro grandi edifici per il terziario, e grandi infrastrutture, stradali e non: le ultime due non mancheranno, tra la via Gioia e la linea 2 della metropolitana, mentre tutto quello che avrebbe dovuto circondarle e animarle stenterà ad arrivare, lasciando solo i grandi sventramenti delle ex Varesine, il quartiere Isola letteralmente isolato e così via. Fino agli anni 2000, al progetto Porta Nuova, al Bosco verticale e alle nuove torri attorno a piazza Gae Aulenti.
Qui si concentrano le prime azioni. Giovanni e Lidia visitano l’amico malato in una clinica che ha sì gli esterni e la hall del Condominio XXI Aprile – un lavoro di Asnago e Vender del 1953, in via Lanzone, dietro a Sant’Ambrogio e Cattolica – ma ha gli interni della Torre Galfa, lì recentemente conclusa da un ex direttore di Domus, Melchiorre Bega, e destinata poi a una storia complessa tra svuotamenti, riusi e remake alberghieri odierni.
Il dialogo col Pirellone, a rimarcare la localizzazione nel centro direzionale, è costante, anche quando Giovanni rientra a casa, in quegli alti edifici dal gusto moderno posti di taglio sopra una piastra proprio su via Pirelli, tra i primi costruiti nel lancio del Centro. L’interno è fitto di corridoi e pareti colme di libri, le lampade sono stridentemente vecchie, Mastroianni si sdraia su un daybed di cuoio intrecciato, fuori dalla finestra il vuoto, e qualche palazzo della stessa altezza. Quelle stesse finestre oggi guarderebbero la torre Gioia 22 che lo studio di Cesar Pelli ha completato nel 2021, o la Regione Lombardia di Pei Cobb Freed & Partners.
La casa, però, ha pure un ruolo iconico, ma Giovanni e Lidia non hanno requie: “Passiamo il tempo in macchina, per muoverci. Non è allegro”. Auto, motori ovunque, la Giulietta dei protagonisti, i taxi, un elicottero.
È proprio li che un ingorgo sulla via della presentazione di un libro inchioda i nostri in pieno Corso Europa, sotto i montanti in alluminio di quel curtain wall apocrifo che Magistretti aveva appena realizzato, nel 1957, al 22, a parlare quello che sembra un linguaggio universale della Milano del dopoguerra. La presentazione dipinge proprio quella stessa Milano, c’è l’editore Bompiani che chiede al suo scrittore un autografo per Salvatore Quasimodo, passa tra i tanti Umberto Eco. Moreau non ce la fa più, insofferente lascia l’evento e cammina. Incrocia per pochi istanti una fontana familiare, con dietro un palazzo ancora più familiare: è il secondo Montecatini di Gio Ponti, in largo Donegani, fresco di una ricostruzione post-bombardamenti che tanto darà da pensare al suo progettista.
Cammina ancora, ed è in via Conservatorio, non certo dietro l’angolo: non c’è ancora un’altra casa che renderà la strada celebre, anche lei di Magistretti, ma al fondo della prospettiva un monolite completamente astratto rispetto alle murature decorate del centro città annuncia la casa-albergo che Luigi Moretti aveva attestato sulla via Corridoni appena finita la guerra. Le sue superfici piane e gli scudi in cemento a sbalzo che le riparano su strada faranno da paesaggio ancora a qualche primo piano muto, e poi nuovi scatti sonori forzeranno altrettanti stacchi nella sequenza. Auto, il suono di un jet, che riprende il passaggio dell’elicottero in Galfa, una sirena e, di lì a poco, razzi.
Sono i razzi che alcuni ragazzini lanciano da un prato mentre Lidia-Moreau è ormai arrivata negli organi più remoti della città che sale, ai suoi bordi: compare la periferia lungo viale Fulvio Testi, il Parco Nord, verso Sesto San Giovanni, tra sparuti palazzi nuovi, fabbriche, cascine e ville storiche, alle spalle di quella che al tramonto dell’era industriale sarebbe diventata la Bicocca di Gregotti, la Bicocca dell’Hangar che Pirelli ha aperto all’arte nel 2004.
L’architettura è cardine di un dramma borghese, ed è nell’apoteosi borghese che la Notte del titolo si compie, nell’oziosa festa di quell’industriale Gherardini, nella sua villa, nuova, realizzata pochi anni prima da Luigi Vietti – è il Country Club di Barlassina – dove legni vernacolari si appoggiano a modernismi cementizi, vetrate e piscine.
Dove i riti sociali daranno a quell’architettura che si è rimasti a vedere astratta per due ore di film un’improvvisa impennata di vitalismo da boom economico, e dove stanze in penombra saranno lo sfondo dei mindgames di una Vitti che compare d’improvviso. La rivedremo essere l’anima cinematografica di altre architetture, la cupola che Dante Bini progetta per lei e Antonioni in Sardegna, ma soprattutto gli spazi di altri film, altre regie e altri mondi. Ma questo sarà un altro viaggio.