È venuta giù la diga: si intitola così la ballata che 4 musicisti – Cristina Donà, Omar Pedrini, Giorgio Cordini e Enrico Bollero – hanno cantato insieme, questa estate, di fronte alle imponenti “rovine” della diga del Gleno, a 100 anni esatti dal crollo che nel 1923, poche settimane dopo l’inaugurazione, travolse la valle sottostante provocando centinaia e centinaia di morti, inghiottendo interi villaggi e lasciando dietro di sé solo morte e distruzione.
Molto meno noto del Vajont, il disastro del Gleno è ugualmente impressionante per le conseguenze catastrofiche che ha generato e costituisce ancora oggi, a un secolo di distanza, un esempio emblematico di come spesso il progresso oscilli fra creazione e distruzione e di come anche l’architettura e l’ingegneria possano produrre artefatti di solenne bellezza ma al tempo stesso – a causa dell’insipienza e della negligenza umana – anche di letale distruttività.
La diga del Gleno fu eretta a partire dal 1919 nell’alta Val di Scalve, in provincia di Bergamo, non lontana da paesi come Schilpario e Vilminore. Doveva fornire energia elettrica e forza motrice alle industrie tessili sottostanti, all’interno di quel grande sforzo di modernizzazione che l’Italia stava affrontando dopo la catastrofe della Grande Guerra e l’epidemia (la “spagnola”) che aveva provocato in pochi mesi oltre 600.000 vittime, quasi l’1,5% della popolazione italiana. La diga – come riportano i giornali dell’epoca – ha i caratteri della costruzione ciclopica: edificata a 1.500 metri di altezza, convessa rispetto alla testata della valle, lunga 260 metri, con uno spessore di 30 metri, nelle intenzioni dei costruttori avrebbe dovuto contenere sei milioni di metri cubi d'acqua, raccolti in un lago artificiale che si estendeva su una superficie di 400.000 metri quadrati.
Per la prima volta viene adottata una tecnica costruttiva mista: la base della diga è realizzata “a gravità”, appoggiando l’una sull’altra enormi tegole, mentre per la parte superiore si adotta il sistema ad archi multipli: una tecnica senz’altro innovativa, compromessa però – come talora accade – dall’imperizia e dall’avidità umane.
Per risparmiare su tempi e costi l’impresa costruttrice usa infatti materiali scadenti, impiega calcina invece di cemento, utilizza ferro arrugginito e residuato di guerra invece che ferro nuovo, e sottovaluta le fuoriuscite d’acqua che fin dall’inizio si manifestano alla base della costruzione. In ottobre, a causa delle forti piogge, il bacino si riempie per la prima volta, le fuoriuscite d’acqua si fanno allarmanti, ma nessuno fa nulla.
Il 1° dicembre 1923, poco dopo le 7, la diga cede di schianto e riversa sei milioni di metri cubi d’acqua, fango e detriti che travolgono tutto quello che trovano, giù giù fino al lago d’Iseo. Anche alcune centrali idroelettriche nel fondovalle vengono travolte e i cortocircuiti che si creano producono incendi che crepitano sulla superficie della massa d’acqua.
I pochi superstiti parlano di apocalisse, il parroco di una frazione, la cui abitazione si trova più in alto rispetto al decorso furioso dell’acqua, dice ai cronisti di aver creduto di assistere alla fine del mondo. La vicenda ha un’eco potentissima nelle settimane e nei mesi immediatamente successivi ma poi viene a poco a poco messa a tacere per non turbare l’ottimismo e la fiducia nelle “magnifiche sorti” di un paese che è appena entrato nel ventennio fascista.
Oggi, a un secolo di distanza dalla tragedia, quel che resta della diga si erge ancora solenne e cupa a tenere viva la memoria di quel che è stato: se si percorre a piedi il sentiero che sale da Pianezza la si intravvede dopo un’ora di cammino, altera come le montagne che la contengono, mesta e luttuosa, ma ancora capace di trasmettere un brivido per come quell’imponenza, quello slancio creativo e progettuale si è potuto rovesciare nel suo opposto e diventare una trappola mortale.
Immagine di apertura: Foto di Etienne su wikimedia commons