Secondo l’autore del “De Architectura”, Vitruvio, l’architetto deve possedere un bagaglio multidisciplinare fondato sulla pratica e sulla teoria. Questo sapere che si costruisce con impegno deve integrarsi con il talento naturale perché, per Vitruvio, né il talento naturale senza una formazione culturale né una formazione culturale senza talento naturale possono dare vita a un professionista completo.
E nella lunga vita di Saverio Busiri Vici queste componenti, personali e professionali – come ha raccontato il figlio Leonardo, anch’egli architetto, in una recente conversazione sulla figura di suo padre in occasione della sua scomparsa – hanno trovato equilibrio in una figura di professionista a tutto tondo, senza che mai una creatività appassionata prevaricasse su una visione progettuale profondamente concreta, e viceversa.
Erede di una stirpe che conta architetti fino dal XVII secolo – il padre Clemente fu autore, tra l’altro, della colonia marina “XXVIII Ottobre” di Cattolica (le “Navi”), lo zio Michele fu uno degli artefici della Costa Smeralda – Busiri Vici ha sviluppato, pur nella continuità, un percorso personale maturato dapprima sui banchi universitari (inizialmente di ingegneria, poi di architettura) e successivamente nello studio del padre. Dall’amicizia personale con Le Corbusier – con cui condivideva l’approccio attento alle problematiche del suo tempo e la concezione di un’architettura al servizio della vita dell'uomo – e dalle frequentazioni internazionali con Aalto e Rudolph, Busiri Vici ha acquisito una visione lucida e consapevole del ruolo svolto dall’architettura nella società: un’architettura calata nella realtà e profondamente attenta ai bisogni dell’utenza, da un lato, e frutto di una sofisticata genesi compositiva, dall’altro.
Nell’arco di oltre settant’anni di carriera, dai progetti istituzionali alle residenze, dall’urbanistica al restauro, comune denominatore, come è osservato anche dal figlio Leonardo, è stato l’ approccio “tridimensionale” al design: piani che si intersecano, complessi incastri volumetrici, drammatici giochi chiaroscurali hanno caratterizzato buona parte dei suoi lavori, tra cui il Collegio Universitario di S. Pietro, la Chiesa di S. Maria della Visitazione, la villa Ronconi, l’Edificio Pluriuso di viale Jonio, la Casa Generalizia di S. Vincenzo de Paolis di via dei Capasso, tutti a Roma. E proprio questa architettura fatta di potenti “segni” – termine a lui caro, come ricorda il figlio – masse articolate, materiali schietti e autentici (calcestruzzo, vetro, mattone, acciaio assemblati senza mediazioni), gli hanno valso l’etichetta di architetto “brutalista”, anche se l’accostamento al brutalismo era per lui riduttivo rispetto al suo operare.
È stato architetto di committenze illustri ma in grado di rinnovarsi in relazione ai temi più disparati. Celebri sono i progetti degli Osservatori Astronomici di Roma e del Lazio (Monte Mario, Monte Porzio, Campo Imperatore) per il Ministero della Pubblica Istruzione; quello della Pontificia Università Urbaniana, con il Rettorato/Biblioteca, l'Auditorium, il Centro Congressi CIAM, su commissione della Congregazione di Propaganda Fide nell’ambito di un sodalizio trentennale; la Casa S. Marta, progettata in collaborazione con l’Ufficio Tecnico del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano.
Sempre dalle parole del figlio Leonardo emerge un percorso fatto di passione e di una eccezionale agilità manuale nel trasporre le idee in materia costruita. Profondamente innamorato dell’architettura, riteneva che in questa dovessero convergere anche le altre arti, come scultura e pittura che praticava con maestria, dalle sculture di grandi dimensioni che animano il giardino di famiglia agli schizzi a cui apportava raffinate componenti pittoriche. E appunto il disegno, con la matita e la carta, è stato lo strumento principe della sua ricerca compositiva insieme alla modellazione a cui si dedicava, tra fogli di balsa, colla e taglierino, nel rifugio di campagna a Tivoli.
Un approccio alla professione oggi sempre più in via di estinzione, in un tempo incline a facili nozionismi, all’esasperazione della dimensione egoica dell’architetto o ad una pigrizia intellettuale asservita alle leggi del mercato, un capitolo del professionismo italiano che ne racconta la dimensione interdisciplinare e l’ampiezza della formazione.
Immagine di apertura: Chiesa S. Maria della Visitazione, Roma 1971. Courtesy Leonardo Busiri Vici