Preside alla Spitzer School of Architecture del City College of New York, Lesley Lokko (Dundee, Scozia, 1964) ha fondato e diretto la Graduate School of Architecture dell’Università di Johannesburg, in Sudafrica. Ha curato White Papers, Black Marks: Architecture, Race, Culture (University of Minnesota Press, 2000). È direttrice di Folio: Journal of Contemporary African Architecture, pubblicato dalla GSA, e fa parte del comitato editoriale di Arq: Architectural Research Quarterly (Cambridge University Press). Lokko si è affermata come scrittrice con il romanzo Sundowners (2004), seguito da altri dieci bestseller. Tiene conferenze e pubblica sui temi della razza, dell’identità e dell’architettura, prestando servizio in giurie e premi. Nel 2021 è stata tra i giudici che hanno premiato i Leoni della Biennale di Architettura di Venezia ed è stata nominata Curatrice della Biennale di Architettura 2023.
Riproponiamo di seguito la spiegazione con cui ha selezionato gli architetti per l’edizione 50 Architecture Firms pubblicata da Domus nel 2020. Lesley Lokko è stata tra i giudici scelti per l’occasione da Vittorio Magnago Lampugnani, insieme a Wowo Ding, Luis Fernández-Galiano, Rahul Mehrotra e Sarah M. Whiting.
“Per gli architetti africani, un invito a puntare i riflettori sui talenti nuovi ed emergenti porta con sé un’opportunità unica ma anche una responsabilità del tutto particolare.
Nel continente africano vivono e lavorano essenzialmente tre tipi di architetti: quelli stranieri, che rientrano generalmente nel vasto quadro del settore di aiuti allo sviluppo, e sono spesso legati a committenti che appartengono a mondi lontani dalle condizioni e dai contesti in cui lavorano; architetti africani che si sono formati all’estero o che hanno un piede sia qui sia là. Infine, e sono la stragrande maggioranza, architetti di formazione locale, che competono con i primi e i secondi per uscire da un mondo fatto di nuovi centri commerciali, uffici per multinazionali e ricchi clienti privati, e affrontare quel genere di architettura pubblica, civile e su larga scala che i nostri governi o non sono disposti o sono incapaci di commissionare.
Tra queste tre ‘tribù’, milioni di persone modellano e fabbricano i propri ambienti costruiti secondo una vasta gamma di scale e competenze, del tutto estranei a quella battaglia per l’anima dell’architettura africana che infuria (di solito) altrove. Ma il panorama dell’architettura africana si sta modificando sotto i nostri occhi, e negli ultimi anni è stato un grande privilegio esserne testimoni. Alcune delle figure chiave che abbiamo selezionato per questa pubblicazione sono “in giro” da un bel po’, e gestiscono tranquillamente il compito piuttosto impegnativo di produrre un buon lavoro in condizioni spesso fluide e instabili. Altri sono esplosi, letteralmente, uscendo sia dalle scuole del Continente sia da quelle all’estero, ‘millennial’ motivati, ambiziosi e determinati a lasciare il segno in un panorama di opportunità, investimenti e capitale intellettuale in rapida evoluzione.
Gli africani qui selezionati sono tanto diversi tra loro quanto lo sono dal mix globale, cosa di cui dobbiamo rallegrarci. È interessante notare che la maggior parte insegna e pratica allo stesso tempo, dato importante in rapporto al ruolo e al significato della formazione architettonica nel continente africano). Per alcuni, questa dualità pratica/insegnamento è un modo per tenersi in contatto con una base demografica unica in quanto a età.
L’Africa ha la popolazione più giovane al mondo: l’età media degli africani è di 19,8 anni rispetto ai 38,6 negli Stati Uniti e 39,2 in Europa. È anche in parte per merito di questa gioventù piena di energie che le informazioni circolano tra il Continente e la sua diaspora, forgiando nuove costruzioni di identità nazionale, appartenenza e ibridismo culturale, così importanti in uno spazio che è stato definito per lungo tempo principalmente dalla sua ‘alterità’.
Questo – si intuisce – è solo l’inizio. Tenete d’occhio questo spazio”.
Immagine in apertura: Lesley Lokko. Foto Debra Hurford Brown. Courtesy La Biennale