È “come una gemma preziosissima” l’ultima città dell’uomo descritta alla fine dell’Apocalisse. Un luogo senza luogo e un tempo senza tempo che l’evangelista Giovanni, o probabilmente un altro scrittore omonimo ma diversissimo, descrive nei particolari che vanno ben al di là dei materiali. “È cinta da grandi e alte mura con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i nomi dei dodici apostoli dell’Agnello. La sua forma è un quadrato e le mura sono costruite con diaspro e la città è di oro puro, simile a terso cristallo. I basamenti delle mura della città sono adorni di ogni specie di pietre preziose”.
Per tutti, ma in particolare per chi si occupi di architettura può aver senso oggi avvicinarsi all’Apocalisse. Una visione che oltre a costituire la prospettiva ultima della storia della salvezza narrata dalla Scrittura è il Punto Zero del senso dell’imminenza della fine dei tempi della prima comunità cristiana. Un senso che si è annacquato via via che gli eventi sono precipitati senza che la fine giungesse, ma che appunto a ogni evento globale e disastroso come la pandemia rimette in discussione l’uomo e le sue dimensioni originarie dello spazio e del tempo. Tornando d’attualità.
L’Apocalisse, dunque, non è il soccorso per i momenti eccezionali ma il tocco che rende tutto nuovo
Un vero peccato. Perché l’Apocalisse di Giovanni, non è solo l’ultimo testo riconosciuto canonico del Nuovo Testamento, il libro che conclude i Vangeli e racconta la centralità della Gerusalemme celeste, quella città che non sta in nessun luogo e in nessun tempo ma è più reale della realtà perché è fatta di pietre preziose, custodisce il giardino con al centro l’albero della vita e sembra spesso pericolosamente una donna. L’Apocalisse, dunque, non è il soccorso per i momenti eccezionali ma il tocco che “rende tutto nuovo”, che arriva dall’origine, che racconta la fine restando così l’unico capace di rispondere a tutte le domande. In particolare a quelle del tempo, dello spazio e della città, dimensioni della realtà umana e, guarda caso, del pensiero architettonico.
Se persino in tempi che paiono apocalittici avvicinarsi all’Apocalisse resta difficile, una via per provarci è farsi avvicinare dalle necessità degli apocalittici, titolo dell’ultimo, inevitabile (e inestricabile) libro di Geminello Alvi. Più che un saggio, un percorso di autocoscienza che dovrebbe essere non solo consigliata – come i suoi precedenti - ma obbligata a chiunque di mestiere o passione debba confrontarsi con le forme dello spazio e del tempo. Alfa e omega della vita ma più prosaicamente, dell’architettura.
“Quella dell’Apocalisse”, scrive infatti Alvi “è una realtà che sovverte tempo e spazio. Incarna un esperimento travolgente, come l’ebbe nella ricerca di uno spazio non euclideo Pavel Florenskij o anche quel Guido De Giorgio che invertì il tempo”. La rilettura dell’Apocalisse di Alvi quindi più che una summa sul più enigmatico libro della storia è la proposta di un metodo per l’attualità perché è un metodo inattuale, fuori dal tempo e dallo spazio. La sintesi e l’intreccio di tutti i temi e tutte le riletture dirette e oblique fatte dagli apocalittici, quegli uomini e quelle donne che vivendo l’Apocalisse dentro di loro hanno rifiutato il conformismo culturale pagandone un prezzo altissimo. Un metodo che appare subito diverso non tanto da Vitruvio, Giulio II o Etienne Boullé ma dalla maggioranza dei teorici contemporanei dell’architettura. Alvi infatti lascia che a parlare non siano le idee imposte ma le esistenze rivelate, le uniche in grado di interpretarne gli arcani perché esse stesse misteriose e indecifrabili.
Ne La necessità degli apocalittici c’è di tutto. Eruditi, santi o spiritualisti, cultori di geometria, mineralogia, ebraico, greco, aramaico, astronomia, retorica, fisiologia. Perché le loro “esistenze sono commento dell’Apocalisse migliore di ogni altro mai scritto”. In uno dei momenti meno trasparenti e più carichi di tragedia della nostra storia recente, dove tutte le convezioni che chiamiamo cultura vacillano sul bordo di un’eternità che resta arcana, ascoltare le ragioni degli apocalittici è come intraprendere un viaggio iniziatico nella nostra condizione, che appare dominata da un’economia che “si vuole ormai teologia, e tutto confonde nella grevità che veste il creato e l’uomo di un utile inutile, ma sociale il più possibile”. Un’occasione, bisogna sempre ricordarlo, scritta in greco da un autore che parlava aramaico che va letta non come un rendering o un masterplan ma come una galleria di icone che all’inizio del tempo e dello spazio raccontano la loro fine. Riaffermando l’inevitabilità dell’unico Architetto degno di questo nome.
Immagine di apertura: foto Jeff Finley su Unsplash