Dice l’antropologo urbano William H. Whyte: “Magari ciò non colpirà il lettore come una mazzata intellettuale” ma “la gente tende a sedersi dove c’è posto per sedersi.”
Anche se l’origine del movimento Occupy può essere fatta risalire al 17 settembre 2011 in un luogo di New York vicino a Wall Street, già prima alcune occupazioni si erano svolte altrove. Il Cairo con piazza Tahrir e l’ondata delle Primavere arabe, Teheran con il Movimento verde iraniano, il parco Gezi di Istanbul e la Spagna degli Indignados erano diventati i luoghi visibili di questo genere di protesta. Sono divenuti sinonimi del movimento del “Noi siamo il 99 per cento” descritto da Cornel West come un “risveglio della democrazia”, che scatenò un sèguito mondiale di manifestazioni di piazza.
Zuccotti Park, nel centro di New York, divenne il volto del movimento Occupy e mise anche in luce il fatto che in realtà non si trattava di uno spazio pubblico. I POPS (Privately Owned Public Spaces, “spazi di proprietà privata aperti al pubblico”), che a New York ammontano a circa seicento, sono spazi destinati all’uso e al tempo libero del pubblico, ma la proprietà e la manutenzione sono private, a fronte della concessione di maggiori superfici edificabili o dell’ottenimento di deroghe. Occupy Wall Street scelse come propria sede esclusiva lo Zuccotti Park, che eccezionalmente non si trovava accanto a un grattacielo ed era circondato su ogni lato da percorsi pubblici. A differenza dei parchi municipali era aperto ventiquattr’ore su ventiquattro, e non era sottoposto a coprifuoco. Questo spazio ‘pubblico’, che era uno dei più vasti parchi privati della città, offriva basse panchine di pietra, grandi aiuole di piante ornamentali ed era coperto da fitti alberi, in contrasto con gli altri POPS, valutati come spazi pubblici con alterna fortuna, dato che hanno poco da offrire in termini di qualità urbana.
Mentre New York ha avuto la sua Zuccotti Place, il Cairo la sua piazza Tahrir, Parigi i suoi Champs Elysées, Vienna la sua Ringstraße e Barcellona la sua Plaça de Catalunya, qual è il posto giusto per occupare Los Angeles e altre città diffuse del nostro emisfero che mancano di naturali luoghi di riunione centrali? È significativo che, nelle recenti manifestazioni per la giustizia sociale e contro la brutalità della polizia, gli scontri e i saccheggi più violenti siano avvenuti in alcuni di questi spazi privati aperti al pubblico. Il West Side Grove, la Third Street Promenade di Santa Monica e i negozi affacciati su Rodeo Drive sono stati tutti saccheggiati e da allora sono sbarrati da tavole. Questi luoghi-surrogato della città, che mimano una gradevole densità urbana con le loro catene di negozi di lusso, i ristoranti con i tavoli all’aperto e gli sterilizzati chioschi che vendono accessori per i selfie, sono spazi strettamente controllati e sorvegliati, più simili a Disneyland che a un vero e proprio insieme di vie cittadine. È anche importante notare come proprio questi spazi stiano diventando il baluardo di uno spazio commerciale privato da difendere a ogni costo con forze di polizia armate, di equipaggiamento e piglio militare.
Nutrito dalla frustrazione del confinamento in casa e su Internet l’attuale invito a scendere nelle strade non vedeva una simile vitalità dagli anni Settanta. Manifestare in un ambiente suburbano ha dei rischi, ed è interessante notare come i cortei si adattino a questa realtà
Nel corso del tempo molti Comuni hanno rinunciato a favorire l’edilizia urbana attraverso significativi incentivi urbanistici. Dovrebbero piuttosto medicare le ferite della devastazione dei centri cittadini causate dalla ristrutturazione urbana con un’edilizia ambigua che generalmente predilige la regolamentazione dell’accesso, le zone a controllo privato, la polizia privata e la gentrificazione. Sono luoghi militarizzati da regole tipo “Vietato l’accesso ai vagabondi” e dotate di puntuti dissuasori per chi usa lo skateboard e per la crescente popolazione dei senzatetto. Per favorire una tranquilla esperienza d’acquisto viene diffuso un sottofondo di musica classica e pacificante.
Altrove, in California, San Francisco ha eliminato le panchine dalla Civic Center Plaza e dalla vicina United Nations Plaza. Nel corso degli anni e in alcune città l’abitudine di sedersi in pubblico si è fatta rara, ed è perfino stata criminalizzata assimilandola al “vagabondaggio”. Contemporaneamente il numero dei senzatetto ha subito un incremento spettacolare, trasformando la ricerca di sedute urbane in battaglia aperta tra turisti e dissidenti. Los Angeles, con la sua carenza di spazi pubblici, ha visto povertà e senzatetto esplodere sotto gli occhi del pubblico. Grazie alla quantità di spazi urbani abbandonati a causa dell’assottigliarsi del traffico automobilistico, che ha avuto l’effetto di fondere insieme marciapiedi e inaccessibili spartitraffico, gli accampamenti dei senzatetto si sono moltiplicati e sono divenuti la manifestazione visiva di una sequela di problemi sociali: disuguaglianza, mancanza di abitazioni a prezzo accessibile e popolazione frammentata e scontenta. Una delle chiavi per una città più ugualitaria è la possibilità per i residenti di interagire e passeggiare su marciapiedi aperti a tutti e non controllati da guardie di sicurezza private.
Nutrito dalla frustrazione del confinamento in casa e su Internet l’attuale invito a scendere nelle strade non vedeva una simile vitalità dagli anni Settanta. Manifestare in un ambiente suburbano ha dei rischi, ed è interessante notare come i cortei si adattino a questa realtà. Invece di cortei centralizzati in luoghi familiari si nota una serie di dimostrazioni locali più piccole, che percorrono quartieri non diffidenti e non preparati. Social media e limitazioni della libertà di camminare senza meta hanno forse prodotto un vantaggio involontario, fondendo dei gruppi in cortei che altrimenti non avrebbero avuto obiettivi in comune. Ci si può chiedere se la postmoderna struttura urbana di Los Angeles, solitamente criticata per la sua carenza di collegamenti, non possa fornire buoni canali a un futuro più positivo per una città più aperta.
Oggi come oggi è troppo presto per riflettere sul destino della CHAZ, la Capitol Hill Autonomous Zone, la “Zona indipendente di Capitol Hill” di Seattle, spazio che i contestatori hanno ribattezzato CHOP, Capitol Hill Occupied/Organized Protest, “Protesta occupata/organizzata di Capitol Hill”, dichiarandola zona “vietata alla polizia”, chiedendo il taglio dei fondi destinati alle forze dell’ordine e contemporaneamente allestendola come l’area di un festival, con servizi rivolti alla qualità della vita comunitaria come laboratori sull’uguaglianza razziale e giardini in comune.
Mentre questo movimento ricorda la politica hippy e le proposte d’architettura delle Open Cities dei tardi anni Sessanta, è sperabile che questo nuovo modo di mettersi alla prova in tempi non ordinari rafforzi i valori della città aperta e porti a un ambiente urbano in cui il marciapiede torni a essere il luogo dell’autonomia. Si spera che vi nascano delle panchine per offrire riposo ai manifestanti esausti e per facilitare nuove sperimentazioni urbane.
Mark Mack, professore emerito dell’UCLA, già architetto dello studio MACK Architect(s), cittadino di Venice Beach e aspirante DJOrangela.
Immagine di apertura: Sarah Ross, Archisuit, 2005-2006. Le panche sono spesso dotate di braccioli per essere più accessibili ad anziani e persone con disabilità – e impediscono i senzatetto di dormire negli spazi pubblici. Con il progetto Archisuit, l’artista Sarah Ross ha creato qualcosa che permette a chi lo indossa di “adagiarsi sopra o infilarsi dentro strutture progettate perchè ciò non avvenga".