“Di fronte a uno dei temi ricorrenti e più dibattuti della cultura architettonica del secondo Novecento – il rapporto dell’architettura con la città e la sua storia – D’Olivo appare distaccato, non coinvolto. L’impressione è che egli cerchi le proprie occasioni professionali fuori dal contesto urbano, in ambiti non storici, in territori non costruiti, possibilmente vergini”.
Nel 2002, una grande retrospettiva sull’opera di Marcello D’Olivo (1921-1991) venne organizzata alla chiesa di San Francesco di Udine, sua città natale. Ferruccio Luppi, curatore della sezione architettonica della mostra (con Francesco Borella) e del relativo catalogo (con Paolo Nicoloso), sottolineava con queste parole una delle principali specificità che lo distinguono nel panorama italiano. La geografia, i grandi segni del territorio sono il riferimento fondamentale tanto per le sue architetture quanto per i suoi schemi urbanistici.
D’Olivo era (e si considerava) al tempo stesso un professionista, praticamente impegnato nella costruzione della città, e un utopista, interessato a concettualizzare, disegnare, e talvolta verificare sul campo alternative possibili alla realtà urbana dei suoi tempi. Sulle coste italiane degli anni ’50 e dei primi ’60, in gran parte “intatte” o perlomeno non ancora saturate dall’urbanizzazione intensiva, l’architetto friulano trova un promettente campo di sperimentazione.
Il più noto tra i progetti balneari di D’Olivo è certamente il piano di Lignano Pineta (1952-1963), a cui Domus 297 (agosto 1954) dedicò un ampio approfondimento, illustrato anche dalla celebre vista aerea del bosco, solcato unicamente dalla spirale dei percorsi della città di fondazione. L’osservazione del redattore dell’epoca, che descrive una delicata processione di ruspe danzanti, suona certamente curiosa ad un orecchio contemporaneo: “Ora le strade sono finite e asfaltate. La natura circostante è intatta: i tracciati sono stati fatti da Caterpillar, bull-dozer spianatrici, che hanno percorso le sinusoidi […] in fila indiana, senza distruggerne l’incanto”. Non manca nemmeno un (altrettanto inusuale) riferimento mondano, alla prima celebrità pronta a svernare in laguna: “Hemingway, vecchio friulano, si è già comperato un lotto a Lignano Pineta”.
A Lignano, D’Olivo costruisce, tra le altre cose, “Il treno” (1952-1960), edificio-infrastruttura di 600 metri di lunghezza che raggruppa tutti i servizi, il dancing “Il fungo” (1954) e numerose residenze private, prima di disinteressarsi ai destini della località turistica, che vede distorta nei suoi principi insediativi dalle pressioni crescenti della speculazione. Mentre le proposte per il Lido di Classe (tra il 1957 e il 1963, anche con Ludovico Quaroni) e per il Lido di Rosolina (1959-1962) restano irrealizzate, è una (allora) remota e inaccessibile penisola del Meridione a offrire a D’Olivo l’occasione di “rilanciare” dopo la delusione friulana.
Ben 28 pagine di Domus 412 (marzo 1964) presentano ai lettori il piano generale e le prime realizzazioni di Manacore (1959-1964), località del Gargano situata tra gli antichi villaggi di Peschici e Vieste, introducendola in termini del tutto entusiastici. “Il caso di Manacore, ‘città per le vacanze’ nel Gargano” afferma il redattore “è eccezionale in Italia […] per l’intelligente coraggio di aver affidato ad un’unica mano e ad un unico pensiero la soluzione urbanistica ed architettonica dell’intero piano; ed anche per il valore formale delle opere già compiute e progettate”. Sviluppato su 400 ettari, previsto per accogliere fino a 20 mila persone, il sito è l’oggetto di “una pianificazione grandiosa e definitiva”.
Ed è certamente grandioso il disegno di questo territorio delle vacanze, che D’Olivo articola in strettissima relazione con la geografia di crinali e valli, promontori e baie di Manacore. Un unico tracciato anulare connette gli accessi ai diversi nuclei dell’insediamento: il centro civico, a monte, alla confluenza con la statale costiera; il centro turistico, nei pressi della spiaggia; le case, tutte panoramiche, sulle vette e gli edifici collettivi negli avvallamenti.
Come in altri esempi variamente sperimentali di progettazione dei litorali turistici (da Arenzano e Torre del Mare, in Liguria, a Punta Ala, in Toscana) il piano urbanistico si fa garante di scongiurare il temibile “effetto Riviera”, la cementificazione incrementale dei litorali, intasati di pensioni e utilitarie FIAT. A Manacore non esiste un lungomare: “Il concetto è quello di arrivare con la strada e il posteggio sempre e soltanto ‘alle spalle’ delle costruzioni in modo che, una volta lasciata la macchina dietro alla casa o all’albergo, si entri, attraversato l’edificio, nella natura intatta e percorribile a piedi”.
All’epoca, la privatizzazione del paesaggio da parte di promotori “virtuosi” sembra l’unica speranza possibile per evitare mali peggiori. Così, le foreste di Manacore si trasformano in “boschi condominiali […]. La pineta apparterrà, in condominio, a tutte le case del colle. Sarà praticamente impossibile alterarla o distruggerla!”.
Il progetto di D’Olivo nel Gargano si realizza solo in minima parte: alcune residenze, caratteristiche per la pianta perfettamente circolare e per le coperture prefabbricate lenticolari con camera d’aria interna; il “Pronto ristoro”, che raggruppa i servizi per i bagnanti, “per evitare le solite costruzioni a baracca, sparse, che sono su tutte le spiagge”; e soprattutto l’hotel Gusmay che, certamente, condivide molti elementi spaziali e linguistici con il contestatissimo Zipser di Grado (1960-1964) ma la cui “qualità degli spazi e dei percorsi è tale da differenziarlo completamente dalla costruzione cittadina”. Ad esempio “dalla hall alle camere si arriva attraverso una lenta rampa […] che toglie quel senso di macchinoso che l’installazione di molti servizi meccanizzati produce. Questo è luogo di riposo e vacanza: di distensione, nel tempo e nello spazio”.
Sono frammenti di un esperimento urbanistico dalle ambizioni ben maggiori, non solo in termini di volumetrie, ma soprattutto d’impatto sulla forma del territorio. Un esempio, su tutti: non vedrà mail la luce (fortunatamente?) “il progetto della trasformazione di una zona paludosa interna in un porto-lago, cui si accederà dal mare ‘attraverso’ una montagna, forata da una gigantesca grotta, in parte naturale: grotta tanto alta che vi possano transitare i velieri”.