Nel caldo di una classica giornata di luglio, Olivier Gabet gironzola per Milano additando palazzi e skyline. Il direttore del Musée des Arts Décoratifs di Parigi, insieme alla sua squadra di comunicatori, si aggira per il capoluogo meneghino pochi mesi prima d’inaugurare la grande mostra “Tutto Ponti. Gio Ponti, Archi-Designer”, curata insieme con Salvatore Licitra, Sophie Bouilhet-Dumas e Dominique Forest: prima grande retrospettiva in Francia, al museo di Rue de Rivoli dal 19 ottobre a 10 febbraio.
Perché la gita milanese?
L’idea era fare una passeggiata, seguendo un percorso alla scoperta dell’architetto milanese. Casa di via Randaccio, Casa Borletti, Casa Laporte, Palazzo Pirelli, la chiesa di San Francesco, il Palazzo della Rai, il palazzo Montecatini. L’intento era scoprire come Ponti avesse modellato il paesaggio milanese. Ci sono pochi architetti e designer che hanno trasformato la città come ha fatto lui. Prolifico creatore, aveva ha rivoluzionato l’architettura post industriale, dando avvio a un nuovo modo di abitare. Era una suggestione prima dell’inaugurazione.
Una grande retrospettiva nel primo arrondissement parigino, con tanto di riproduzione in scala della facciata della Cattedrale di Taranto ad accogliere i visitatori. Ma anche oltre 400 pezzi selezionati fra quelli realizzati fra il 1921 e il 1978, a rimarcare la multidisciplinarità dell’architetto milanese. Ma perché proprio il Musée des Arts Décoratifs di Parigi?
Il museo ha una lunga relazione con Gio Ponti. Nel 1995, Parigi ha infatti ospitato la prima sua mostra internazionale, supportata proprio dalla nostra istituzione. Per molto tempo, le persone credevano fossimo stati noi a realizzare quella esposizione. Tre anni fa con il team di curatori – Salvatore Licitra, Dominique Forest, Sophie Bouilhet-Dumas – abbiamo pensato fosse arrivato il momento di metterla in piedi. Di conseguenza, abbiamo realizzato che avremmo dovuto farla nel miglior modo possibile.
La mostra presenta una panoramica cronologica delle sei decadi di carriera del genio milanese nel campo dell’architettura, del design, dell’editoria, dell’interior. Qual è stato l’aspetto più difficile?
Oltre a un immenso catalogo (300 pagine per 300 illustrazioni sotto la direzione di Sophie Bouilhet-Dumas, Dominique Forest e Salvatore Licitra, a cui hanno collaborato oltre 30 artisti internazionali), un grande lavoro di ricerca fra collezionisti privati e pubblici che ci restituisse il meglio di Gio Ponti. Il compito più arduo è stato bilanciare la visione di un artista così importante, un Tolomeo in tantissimi ambiti: dalla rivista Domus al Palazzo Pirelli, dalla ceramica all’argento, fino a tantissimi altri oggetti. Ci sono davvero pochi artisti capaci di saltare da un campo all’altro in questo modo, solo un lavoro meticoloso e capillare poteva renderci capaci nell’impresa. È stato difficile scegliere: non si può essere esaustivi con Ponti. Non potevamo procedere per partito preso. Abbiamo cercato di ascoltare il visitatore e mettergli davanti l’universo. Dal grattacielo al cucchiaio, il vero messaggio è che la creazione è ovunque.
Più che architetto, Gio Ponti amava definirsi artista. La locandina della mostra, disegnata da Italo Lupi che ha curato la grafica dell’intera esposizione, è lapalissiana.
Per noi era fondamentale cogliere lo spirito eclettico. Nella mostra – il cui allestimento è stato curato da Wilmotte & Associés – abbiamo dato molto spazio a luci, volumi, architetture, non solo per mettere i materiali in una vetrina, ma per fare in modo che dialogassero. Italo Lupi ha voluto catturare lo spirito libero di Ponti. Il suo sense of humor, il gusto e l’eleganza, abbiamo voluto inserire anche la quotidianità del maestro milanese: una lettera, disegni e schizzi della macchina del futuro o il prototipo di un’auto. Quello che volevamo fare era mostrare questa sua pluralità di animi.
C’è un aspetto che fra tutti vi ha colpito?
Il fatto che Ponti non fosse minimamente sensibile all’ideologia, quando in realtà era dappertutto. Quando guardi alla vita artistica e culturale dell’Europa o degli Stati Uniti del XX secolo, tutto era permeato dall’ideologia. Lui, a differenza di altri, era uno spirito libero, c’erano categorie della sua creatività che andavano oltre: vita, luce, gioia, poesia. Oggi il suo design e i suoi progetti hanno una caratteristica di freschezza, perché sono ancora umani e universali.
Gio Ponti ha visto e vissuto due guerre. Oggi viviamo un periodo complesso e preoccupante. Cosa possiamo imparare da lui?
Ponti non ha mai rifiutato il suo tempo. Certo girava per il mondo, da Teheran a Caracas, ma non fu mai impressionato da Mussolini. Faceva il suo lavoro perché viveva nella missione del design e dell’architettura. Quello che possiamo imparare è senza dubbio la sua generosità e apertura. Niente accade nel mondo se non hai queste due importanti qualità. La generosità la vediamo nel suo prolifico lavoro di designer e architetto, e nel suo modo di dare il benvenuto a colleghi, designer e architetti. Anche attraverso la Domus che ha fondato nel 1928. Le pubblicazioni non andavano attraverso il proprio gusto, ma perché per lui era importante che le persone conoscessero una storia, un progetto, un’idea. Per oggi è una incredibile lezione, è il nocciolo di ogni grado di produzione artistica. La mission, per tutti, è andare avanti e creare sempre.