Di norma, le biografie degli architetti sono piuttosto auto-mito-biografie, vale a dire autocelebrazioni retroattive, orazioni scritte per giustificare il proprio operato e il proprio ego, spesso con risvolti romanzati, valga per tutte l’esempio di Frank Lloyd Wright – a tratti insopportabile. Invece, quella pubblicata di recente da Richard Rogers, Un posto per tutti. Vita, architettura e società giusta (Johan & Levi, 2018), ha il pregio di contrastare la megalomania insita in quasi tutte le personalità architettoniche grazie all’uso sistematico dell’autoironia evidentemente ben radicata nella tradizione del witz ebraico. Rogers, pur avendo conseguito tutti i traguardi che un architetto possa immaginare, non nasconde le difficoltà conseguite nel corso della sua lunga carriera e anzi spesso sorvola sulle proprie architetture pur di restituire in un modo più compiuto una cosa che rarissimamente gli architetti ormai mettono a nudo: i propri valori etici e politici, prima ancora che disciplinari, senza ironie o infingimenti.
Per questo, grazie al suo tono scanzonato, si legge con grande simpatia: si fraternizza con il progettista che, dopo mille battaglie sociali, a un certo punto ha visto prevalere la propria posizione progressista, mentre ora il vento è decisamente cambiato visto il prepotente ritorno del sovranismo post Brexit.
Nato a Firenze nel fatale 1933 da padre veneziano e madre triestina, Rogers è un prodotto delle leggi razziali italiane promulgate esattamente 80 anni or sono: solo in seguito a queste la famiglia emigrò a Londra, lasciando i propri parenti in Italia fra i quali l’illustre cugino Ernesto Nathan Rogers e che avrà una grande importanza per la sua formazione, sebbene l’architettura dei BBPR, dove pure lavora per un breve periodo, sia quanto di più lontano dagli esiti formali raggiunti in seguito – e da quelli degli allievi dell’architetto triestino, i “giovani delle colonne”. Poco prima di morire, l’ex direttore di Domus e Casabella, commemorava così Le Corbusier: “Non penso alla storia come a una meta raggiunta o da un raggiungere che si conchiude in definitive perfezioni, ma come ad un problema che ripropone nuove esperienze, le quali richiedono il contributo della responsabilità creatrice e critica di ciascuno di noi [1]”. Nello stesso anno, Richard pubblicava il suo primo articolo su Domus dedicandolo alla sua architettura più amata, la Maison de Verre parigina, e interpretando a suo modo l’affermazione dell’illustre cugino: “Mentre le architetture di Le Corbusier sono un gioco di volumi, di masse, un monumento, questa architettura di Chareau è, si può dire, uno scheletro strutturale racchiuso in una ‘membrana’, e animato all’interno da partizioni mobili, liberamente disposte nello spazio [2]”. Ecco perché, in un certo senso, il progetto del Beaubourg era già presente in nuce in questa osservazione con una continuità rogersiana ma del tutto personale.
L’infanzia a Firenze e Londra, quindi la scapestrata giovinezza tra Venezia e Trieste, dove Rogers svolge il servizio militare nell’ultimo anno dell’occupazione inglese della città (e dove fra l’altro può riabbracciare la famiglia materna Geiringer fra cui il nonno Riccardo dirigente delle Generali), è nel duro contesto londinese del dopoguerra che si forma con tutte le difficoltà di adattamento di un immigrato: problemi linguistici, accentuati dalla sua dislessia congenita, in una situazione economica non certo brillante e in una periferia ancora avvolta nella nebbia e nei fumi di carbone da riscaldamento. La sorprendente vittoria dei Laburisti alle elezioni del 1945 segna per sempre l’adesione della famiglia Rogers agli ideali egualitari e socialisti. Anche la prima moglie, Su Brumwell, è laburista e condivide con Rogers gli anni dell’Architectural Association e, dal 1961, a Yale, attratti dal ruvido magistero di Paul Rudolph e delle sue costruzioni delicate e leggere realizzate in Florida, scoprendone la dura organizzazione militaresca: “Era praticamente un centro addestramento reclute per architetti: gli studenti, prima ancora di essere bocciati agli esami, crollavano fisicamente”.
A Yale, Rogers incontra due studenti inglesi, Norman Foster e Carl Abbot e con la Volskwagen di quest’ultimo girano insieme gli USA per scoprire le città più a Ovest. Nella miriade di incontri e scoperte del periodo americano (Rudolph, Neutra, Schindler, Sullivan, Eames, Mies, l’architettura industriale) col senno di poi Rogers giudica decisivi per lui la conoscenza di Louis Kahn, con la sua distinzione tra spazi-serviti e spazi-serventi, e soprattutto di Frank Lloyd Wright. Ciò che l’architetto italo-inglese non manca mai di sottolineare è il valore del lavoro di gruppo, l’importanza dei suoi numerosi collaboratori dal Team 4 nella swinging London fino a oggi, passando per il capitolo centrale dedicato alla vittoria del concorso per il Beaubourg e alla sua piazza pubblica, l’elemento vincente. Il suo gruppo di progettazione era formato non solo da architetti dalle differenti inclinazioni diplomatiche o impiantistiche come Gianfranco Franchini o Laurie Abbot, fra gli altri, ma anche da molti ingegneri, su tutti Peter Rice, mentre Renzo Piano secondo Rogers emerse alla fine soprattutto come project manager: “toccava dunque a Renzo, con il suo temperamento stabile e razionale, risolvere sia gli intoppi quotidiani sia i momenti di crisi che ciclicamente interrompevano il progetto [3]”.
Tutta la seconda parte del libro è dedicata per lo più alle battaglie politiche e culturali del Rogers più maturo, che tornato stabilmente in patria dopo l’inaugurazione del Centre Pompidou nel 1977 non si dedica più e soltanto alla professione, ma all’organizzazione di dibatti e gruppi di pressione con varie vesti. La pedonalizzazione di Trafalgar Square e il recupero di alcune parti degradate lungo il Tamigi volto a recuperare un rapporto fra la capitale e il fiume sono le due azioni principali degli anni Ottanta, mentre dagli anni Novanta in poi gli obiettivi si fanno più ambiziosi grazie al conferimento del titolo di Lord e all’azione di consulente dei governi di Tony Blair a capo della Urban Task Force e in seguito all’Architecture and Urbanism Unit voluta per Londra dal sindaco Ken “the red” Livingstone. Le battaglie a difesa degli spazi pubblici e contro ogni tipo di ghetto (sia per i poveri nelle periferie sia per i ricchi delle gated communities), per un’idea di città compatta e servita dai mezzi pubblici, rispettosa dell’ambiente e sempre modernizzatrice lo hanno portato a scontrarsi direttamente con il paladino di tutti reazionari in architettura, vedi il sarcastico paragrafo “I brufoli del principe Carlo” [4]. Passano così in secondo piano i grandi lavori della maturità dello studio Rogers, a partire dai Lloyd’s – ironia della sorte, per chi discende dalla famiglia fondatrice delle prime assicurazioni del mondo, Le Generali – ispirati dal Larkin Building di Wright, l’aeroporto di Madrid, il Palazzo di Giustizia di Bordeaux.,
La lunga vita trascorsa senza mai indossare una cravatta, tranne che alla Camera dei Lord dove è obbligatoria, ha regalato a Rogers i massimi riconoscimenti come il Leone d’Oro della Biennale e il Pritzker Prize senza risparmiargli alcune amarezze autobiografiche come la perdita del figlio più giovane, scomparso a Vernazza dopo un’alluvione, o lo scenario politico contemporaneo avverso. Ciò nonostante, Rogers si sforza di guardare al futuro con ottimismo. Pur essendo apparentemente l’architetto champagne socialist per eccellenza (casa davanti al Royal Hospital di Cristopher Wren, vacanze nel Chiantishire, la moglie Ruthie gestisce un ristorante italiano molto chic, molti suoi progetti sorgono nel luogo simbolo del capitalismo finanziario, la City, e qualcuno come One Hyde Park è di proprietà di grandi fondi internazionali), non lo si può certo accusare di incoerenza: lo studio Rogers Stirk Harbour + Partners è un modello perché è il primo in Inghilterra a prevedere per statuto che i soci non possano guadagnare più di sei volte la paga di un architetto junior, il primo a introdurre i permessi retribuiti per le dipendenti in gravidanza (ora anche per i papà) e il primo a devolvere ogni anno una parte degli introiti per cause di beneficenza mirate e concordate da tutto lo studio – e tutto questo a partire dagli anni ruggenti del tatcherismo.
- 1:
- Ernesto N. Rogers, Le Corbusier tra noi, All’insegna del pesce d’oro, Milan 1966, p. 17
- 2:
- Richard Rogers, Parigi 1930, “Domus”, n. 443, October 1966, p. 8
- 3:
- Richard Rogers, with Richard Brown, A Place for All People. Life, Architecture and the Fair Society, Canongate Books, 2017
- 4:
- Pages. 212-217
- Titolo libro:
- Un posto per tutti. Vita, architettura e società giusta
- Autori:
- Richard Rogers con Richard Brown
- Casa editirice:
- Johan & Levi, Monza
- Pagine:
- 336
- Prezzo:
- 36 €
- Anno:
- 2018
- ISBN:
- 978-88-6010-211-9