Spesso le genealogie si espandono fino a diventare mitologie. Nel caso dell’architettura giapponese le narrazioni della sua riscoperta, in vari periodi storici, da parte dello sguardo occidentale hanno tanto legittimato quanto mitizzato la sua attuale immagine internazionale. Storicamente, la Restaurazione Meiji (1868-1912) segnò un punto di svolta, quando l’arcipelago dovette affrontare un’idea alternativa del “costruire”, che nel mondo occidentale costituiva già una disciplina saldamente affermata sotto il concetto di “architettura”. Introducendo in origine stili estranei a una cultura fondata sulle strutture lignee, l’ibridazione tra sapere preesistente e valori recentemente imposti avrebbe gradualmente rafforzato l’identità architettonica nazionale giapponese.
Oggi si riscontra un interesse internazionale crescente per l’architettura giapponese. Guardando alle tendenze, il Giappone totalizza il 15 % (6 premiati) dei vincitori del prestigioso Pritzker Architecture Prize, al secondo posto dopo gli Stati Uniti con il 20 % (8 premiati). Inoltre, nell’ultimo decennio il Giappone totalizza, in termini di nazionalità, il 30% degli architetti selezionati, senza rivali che possano rivendicare un riconoscimento simile. Un altro indicatore è il folto numero di progetti cui gli studi d’architettura giapponesi lavorano nel mondo. Nel solco di questa attuale consapevolezza, le istituzioni artistiche dedicano una notevole quantità di spazio alla promozione del design e dell’architettura giapponesi. Il Mori Art Center, luogo essenzialmente dedicato all’arte contemporanea, dalla sua apertura nel 2003 in media ha dedicato almeno una mostra dedicata esclusivamente all’architettura ogni tre anni. E tuttavia nessuna delle precedenti mostre d’architettura è stata ambiziosa e ampia come quella attualmente in corso: “Japan in Architecture: Genealogies of its Transformation”.
L’obiettivo di reinterpretare certi attributi che hanno dato forma a concezioni dell’identità architettonica giapponese non è certamente del tutto nuovo. In vari periodi sono sorti dibattiti e interesse all’interno della cerchia degli architetti intellettuali giapponesi, oltre che nella comunità internazionale dell’architettura. La villa imperiale di Katsura, per esempio, è stata oggetto di nuova considerazione da parte di architetti modernisti come Bruno Taut e Walter Gropius, ma nuove letture sono nate anche grazie alle immagini del fotografo giapponese Yasuhiro Ishimoto. Altri architetti giapponesi come Kenzo Tange e Togo Murano, per citarne solo alcuni, si sono dedicati a osservare gli stili tradizionali giapponesi sotto una luce differente. A questi precedenti la mostra attualmente in corso aggiunge una nuova stratificazione storica.
Curata da direttore del Mori Art Museum Fumio Nanjo, insieme con Shunsuke Kurakata, Ken Tadashi Oshima e un selezionato gruppo di esperti, con la consulenza di Terunobu Fujimori, architetto e docente di Storia, la mostra comprende 100 progetti e oltre 400 oggetti. Suddividendo la narrazione in nove genealogie invece di esporre gli oggetti in ordine cronologico la mostra affronta il titanico compito di decodificare i “geni” che hanno prevalso nel corso dell’evoluzione dell’architettura giapponese.
Nel percorso espositivo le opere vengono presentate con modelli fisici, disegni, foto e video. Riunendo edifici storici e contemporanei in modo che si spieghino reciprocamente, le tesi delle genealogie vengono illustrate sia identificando caratteristiche specifiche sia mostrandone la diretta applicazione. Ogni sezione mostra una cronologia che indica tutti i progetti scelti, permettendo al visitatore di seguirne anche lo svolgimento temporale in una prospettiva più ampia. Il progetto di allestimento, affidato a un gruppo di giovani architetti, ha preso in considerazione tre livelli percettivi, dalla prospettiva più distante delle zone superiori delle pareti, che mostrano una sintesi di citazioni e d’idee, a una prospettiva mediana che va da uno a tre metri di altezza per i materiali che costituiscono il nucleo della sezione, fino a una vista ravvicinata per le informazioni particolareggiate nella sezione inferiore.
In Giappone, la situazione geografica ha dato luogo a una cultura che è divenuta parte integrante dello stile di vita degli abitanti, come illustra la genealogia d’apertura. L’abbondanza di risorse naturali ha portato a un affinamento delle tecniche, come un inventivo sistema di giunti autobloccanti (kigumi) oltre che a un’impostazione sostenibile nella gestione dei boschi locali. Si affermò anche un sistema di proporzioni tra i componenti (kiwari-jutsu) che ha attraversato silenziosamente generazioni e generazioni di famiglie artigiane. L’estetica giapponese viene spesso messa in rapporto con il concetto di semplicità. Nella genealogia seguente questa etichetta non viene negata ma integrata, ammettendo la carenza di componenti strutturali e illustrando come i materiali esprimano con schiettezza le loro qualità intrinseche. La terza genealogia mette in primo piano un componente essenziale dell’architettura giapponese, il tetto, in origine elemento funzionale che dà riparo dalla natura ma capace anche di integrare nella sua morfologia valori simbolici.
Un’altra genealogia spiega come l’architettura in Giappone sia storicamente considerata in parallelo con una certa idea di artigianato, dove l’insieme e i componenti si intrecciano in un unico insieme. In contrapposizione con le partizioni nette, nella genealogia seguente viene messo in luce il concetto di collegamento sottile, insieme con il rifiuto della decorazione e con un’impostazione ludica del rapporto tra interno ed esterno, paradosso che gli architetti giapponesi continuano ad analizzare nell’architettura contemporanea. L’architettura giapponese è in origine una giustapposizione di componenti locali e straniere, che ha inizio con l’assimilazione dei concetti affermatisi dopo l’introduzione del buddhismo affermatosi nel VI secolo attraverso la penisola coreana. Più tardi, con la restaurazione Meiji, l’importanza dell’opera di architetti come Chuta Ito contribuì in misura significativa all’amalgama delle idee giapponesi con quelle occidentali: un’architettura ibrida che si dispiega nella sesta genealogia.
Alla fine della mostra, con la genealogia seguente, viene anche analizzato il concetto di ‘pubblico’ nell’architettura giapponese, insieme con diverse possibilità di condivisione degli spazi in una specifica rete di persone e di risorse. La riscoperta dell’architettura giapponese attraverso gli occhi degli stranieri e l’importanza della natura come sorgente da cui derivano ogni vincolo e ogni conoscenza sono la materia delle restanti genealogie.
Una lacuna si fa notare alla conclusione di una mostra tanto ambiziosa, certo non per carenza di informazione nella narrazione dell’esposizione, ma perché le genealogie sono intrinsecamente riduttive. È una lacuna che si è invitati a colmare con la propria esperienza. L’effimero è un significativo concetto che permea l’architettura giapponese: in lingua giapponese si esprime con il concetto di mujo, che comprende anche la capacità di trasformazione nel tempo senza distruggere il nucleo interno. Ma in fin dei conti dove c’è un allievo c’è un maestro, dove c’è una genealogia c’è un mito, e dove c’è un mito c’è una lacuna: tutto in un circolo senza fine che danza fino a che l’uno non diventa l’altro. Solo il tempo rimane a osservare in silenzio l’avvento di nuove genealogie.