La Terra sta vivendo un enorme declino della popolazione animale. Gli scienziati la chiamano la “sesta estinzione di massa” perché nel secolo scorso più del 50% degli animali è scomparso. Come progettisti dovremmo interrogarci sulla possibilità di sviluppare nuove strategie per una coesistenza integrata tra umani e mondo animale nelle nostre città. Nel 2008 Andrea Branzi, insieme con Stefano Boeri, ha proposto per la Grand Paris l’inserimento di animali liberi nella città e, più in generale, una visione meno antropocentrica della metropoli. Abbiamo incontrato Andrea Branzi nel suo studio a Milano per parlare di questo progetto.
Mi puoi parlare del progetto per la Grand Paris sviluppato insieme a Boeri nel 2008?
In occasione di un concorso indetto dal Presidente francese Sarkozy sul futuro della Grande Parigi, proponemmo un programma d’intervento non espansivo sulla metropoli parigina, basato sul recupero e sulla rifunzionalizzazione dell’esistente, sulla qualità degli spazi interni e sull’inserimento di 50.000 vacche sacre e 30.000 scimmie libere nei parchi e nei viali parigini. La nostra idea era puntare su una metropoli meno antropocentrica, che offrisse un’ospitalità “cosmica” aperta alle biodiversità. Prendemmo come riferimento il modello delle metropoli indiane, dove le vacche sacre, i cammelli, gli elefanti convivono nelle città insieme agli umani. La presenza di animali liberi all’interno di un tessuto urbano crea una sorta di riduzione dello stress; come elastomeri inseriti in un meccanismo accelerato, che aumentano il livello di imprevedibilità del sistema e lo costringono a rallentare il suo ritmo. Protetti dalla loro sacralità, gli animali interrompono i percorsi e aumentano il mistero del mondo costruito. Nel traffico urbano, una vacca sacra può attraversare inaspettatamente la strada e, per diverse ragioni, è necessario stare molto attenti a non investirla. Intanto, perché si è multati e poi perché secondo la tradizione indiana porta sfortuna. Interi quartieri sono invasi da gruppi di babbuini, che saltano, rubano, si menano, ma essendo animali sacri rimangono intoccabili. Troviamo templi costruiti per adorare i topi, i serpenti, oppure, come nel caso dei Parsi, torri in pietra nera costruite all’ingresso della città per ospitare uccelli rapaci che divorano i cadaveri. Assistiamo così a un’idea di pacifismo integrale. Una strategia per un’ospitalità cosmica, dove i morti vengono tenuti insiemi ai vivi, i poveri insiemi ai ricchi, le mucche sacre insieme al traffico in un’idea di globalità e grande spiritualità. In particolare, il filosofo indiano Jainio, nel V secolo ha teorizzato la non violenza integrale; ossia non bisogna uccidere gli uomini, ma nemmeno gli animali, gli insetti, i microbi, le formiche e tutti gli esseri viventi secondo il principio per cui “è sacro tutto ciò che è vivente”. Nel progetto per Parigi la presenza di animali liberi prende forma dalla visione universale dell’esistere e dell’essere.
Oggi nelle città europee si verifica per certi versi un fenomeno simile. Molti animali selvaggi dai bordi della città si spostano nella città, per una facilità di cibo disponibile, ma anche per una riduzione effettiva degli spazi dovuto all’allargamento continuo della città… Londra si trova ad affrontare il tema delle volpi (ormai 30.000 che si muovono nel tessuto urbano), Berlino e o Roma i cinghiali, Los Angeles con i lupi e così via… Possiamo associare questi fenomeni alle metropoli indiane?
Certo, anche se si tratta di fenomeni di altissima complessità e diversità. Quello indiano ha un’origine spirituale e religiosa, mentre qui in Occidente si assiste a una perdita di controllo. Da noi sono affrontati come fenomeni imprevisti, mentre lì sono situazioni previste e accettate.
Ma nel progetto di Parigi l’imprevedibilità è anche pericolosità? O anch’essa può essere interpretata come elemento progettuale?
Si tratta di un imprevisto diffuso che assume una dimensione reale. La società urbana indiana è una società che non s’identifica nel costruito, come non s’identifica con il lavoro meccanico. L’identità delle città non è fatta tanto di monumenti e palazzi, ma è fatta dall’umano, dai colori dei vestiti, dai decori.
Perché la civiltà indiana rappresenta un riferimento per te? Che cosa possiamo imparare da essa?
È un mondo tutto da capire per noi occidentali. Non è folklore, ma una realtà, una possibilità. Perché quella, per esempio, d’introdurre le scimmie e le vacche a Parigi è una possibilità. Queste presenze libere diventano parte dell’universo vivente e l’incontro con esse è capace di cambiare te stesso e la relazione con quello che hai attorno.
Hai sviluppato alcuni anni fa il progetto Animali domestici e recentemente Gabbie. Mi puoi parlare di questi progetti per animali?
Nella tradizione mediterranea gli animali domestici – come i cani, i gatti e i canarini –portano fortuna. Questo già ai tempi dei Latini. Gli antichi Romani consideravano gli “animali domestici” come presenze protettive e benauguranti. L’oggetto di arredo era considerato un folletto domestico che ti proteggeva. Si tratta di un’origine antropologica molto remota e consolidata. Anche negli arredi pompeiani, per esempio, ritroviamo spesso forme zoomorfe. Recentemente, ho lavorato ad alcune gabbie, microarchitetture che ospitano i canarini e il loro incessante canto. Nelle carceri di Poggioreale a Napoli i detenuti molto spesso tengono i canarini nelle celle. Si tratta di una tradizione molto comune, anche nelle case, nelle botteghe e negli ambienti di vita che la modernità ha troppo a lungo ignorato. Sono animali estremamente professionali che provengono da generazioni di canarini in gabbia e pertanto abituati ad ambienti domestici.
In questo caso, il canarino è parte del processo progettuale?
Sì, ovvio. L’animale è al centro del progetto. Le immagini degli animali mi piacciono sempre molto. Sono presenze magiche posseduti da divinità indecifrabili. Quando introduci in un progetto un frammento di natura, esso sprigiona una forza espressiva infinitamente superiore a tutto il sistema geometrico della modernità, mentre la sua unicità lo rende una presenza quasi sacra.