Le case sugli alberi e i capanni nella macchia sono un rifugio fortemente radicato nel nostro immaginario collettivo. Intuendone il potenziale, il giovane architetto Marco Lavit ha consacrato una costola del suo studio, Atelier Lavit, alla loro progettazione in un’ottica di reinterpretazione contemporanea. Installate in una foresta di querce centenarie alle porte di Parigi o affacciate su un bacino idrico non lontano da Avignone, le sue capanne s’inseriscono senza rotture nel paesaggio e favoriscono in chi vi soggiorna un’esperienza inedita e di fusione con la natura. Lo abbiamo incontrato per scoprire come si ripensa un genere architettonico così particolare.
Come ti sei avvicinato alla progettazione dei capanni nella natura?
L’architettura sostenibile mi ha sempre interessato: il mio progetto di tesi in architettura era una cantina progettata con la tecnica della terra cruda. Nella costruzione di capanne sono poi finito per caso: ho incontrato i miei committenti ad una cena a Parigi, il loro business nascente mi divertiva e abbiamo iniziato a collaborare. Con loro abbiamo realizzato ecolodge di diverso genere: a volte sugli alberi, a volte piattaforme galleggianti, a volte a bordo lago, infine anche due interrate con prese di luce verso il cielo.
Quali sono le sfide tecniche e architettoniche con cui bisogna confrontarsi nella costruzione di una capanna?
Ho avuto la fortuna di essere affiancato da persone valide che mi hanno iniziato a questa tipologia di strutture, tra cui una ditta davvero unica che si chiama Nid Perché dove lavorano 40 tra ingegneri e carpentieri che fanno solo capanne e che si sono interfacciati con me per rendere i miei progetti prefabbricati e standardizzati, sia per quanto riguarda la costruzione sia il trasporto. A parte i dettagli dei rivestimenti interni e del bagno, il grosso della capanna è prefabbricato nel loro atelier e quindi montato in loco in tre settimane. Per le quelle sugli alberi si scelgono le piante più alte e più grandi, così da avere una vista migliore ed essere il più possibile sospesi da terra. Un botanico controlla non solo che gli alberi non abbiano malattie, ma anche che sull’albero non abiti un picchio, altrimenti la capanna non si può installare. Ancora, le capanne non compromettono la crescita dell’albero: c’è un collare in caucciù montato tra la capanna e il tronco che viene svitato leggermente ogni tre anni in modo da permettere alla pianta di svilupparsi. Infine, la capanna non è impattante: quando viene smontata, è come se l’albero non ne avesse mai ospitata una.
La diffusione di queste strutture è in crescita. Cosa ricerca la committenza e cosa le persone che vengono a soggiornare in questi ecolodge?
Credo che ci siano vari fattori. Da una parte ci sono investitori pronti a scommettere su questo tipo di attività turistica: è molto meno invasiva e impattante e c’è la possibilità di dialogare con gli enti locali per superare i vincoli di inedificabilità. Dal punto di vista dell’ecoturista, è un modo immediato per allontanarsi dalla confusione e dalla routine, non più legato ad una visione dell’isolamento come esperienza elitaria e di lusso.
Le tue capanne hanno superato l’immaginario della tipica casetta col tetto a falde.
Ho voluto uscire dall’estetica della capanna come casetta prefabbricata avulsa dall’interpretazione del paesaggio che la circonda. Per quella sugli alberi, ho preso come riferimento la casa di chi sull’albero ci vive davvero, ossia l’uccello con il nido. Da lì l’idea di utilizzare lamelle di legno orizzontali, che rendono lo spazio interno proiettato sull’esterno, offrendo la sensazione di essere sospesi tra le chiome degli alberi. Per l’interno ho voluto creare un involucro accogliente conferendogli un tocco caldo grazie al un legno di pioppo, che è più chiaro, profumato e permette alla luce di diffondersi in modo morbido, ovattato. Per le capanne sul lago, invece, ho voluto richiamarmi ai canneti che circondano il bacino, riprendendo senza alcuna volontà di completo camouflage l’elemento ritmico di queste canne leggere e dritte per dare uniformità estetica.
Nel tuo ultimo progetto realizzato a Port Louis sull’isola di Mauritius hai deciso di traslare un elemento naturale in un ambiente fortemente urbanizzato.
Per l’ultima edizione di “Porlwi”, festival delle arti che anima la capitale dell’isola, ho presentato insieme con il collettivo LESS un intervento urbano per sensibilizzare il pubblico ai possibili usi del bambù intrecciato. L’economia di Mauritius, storicamente legata alla canna da zucchero, è oggi in crisi. Con questa installazione abbiamo voluto suggerire l’ipotesi di una riconversione delle piantagioni al bambù, già presente sull’isola e utilizzato nell’artigianato tradizionale. Per questo, abbiamo creato una facciata ventilata su un edificio abbandonato, facendolo rinascere grazie a questa fibra vegetale intrecciata. Un’estetica a scacchiera, molto razionale e geometrica, in aperto contrasto con il caos del tessuto urbano circostante.