The Evidence Room

Alla Biennale di Venezia l’installazione della Waterloo University School of Architecture mette in primo piano la battaglia per la verità, collegando prove architettoniche alla storia recente dell’Olocausto.

Con la sua Biennale – “Reporting from the front” – il curatore Alejandro Aravena intende affrontare le numerose ‘battaglie’ che devono essere combattute dagli architetti di oggi: dalla disuguaglianza all’inquinamento e all’esclusione, alla mediocrità, al crimine, al traffico e via dicendo.
Alla lista si potrebbe aggiungere un’ulteriore battaglia: quella contro l’ingiustizia e la menzogna. L’installazione The Evidence Room, a cura di un gruppo di lavoro canadese della Waterloo University School of Architecture – composto da Robert Jan van Pelt, Anne Bordeleau, Sascha Hastings e Donald McKay – mette in primo piano proprio questo tipo di battaglia per la verità, collegando prove architettoniche alla storia recente dell’Olocausto.
The Evidence Room
The Evidence Room
Come s’intreccia l’investigazione scientifica con l’architettura, e come può la prima rivelarsi feconda e trasformarsi in un’esperienza estetica nel nome della memoria? Queste alcune delle domande poste da The Evidence Room, piccola installazione allestita nella sala Q del Padiglione centrale dei Giardini. Qui, su invito di Aravena, il gruppo canadese ha ricreato, dal punto di vista spaziale e da quello visivo, alcune parti della fabbrica della morte di Auschwitz-Birkenau, usando l’architettura come strumento che non si limita a narrare una storia dell’Olocausto in più, ma traduce “la necessità di ricordare quel che non si può negare e tuttavia sta oltre ogni comprensione”. [1]
The Evidence Room
The Evidence Room

Nel 2000 lo storico dell’architettura Jan van Pelt fu chiamato a testimoniare in una causa di diffamazione per confutare l’affermazione di un revisionista, lo storico britannico negatore dell’Olocausto David Irving. Irving affermava che ad Auschwitz non erano mai esistite camere a gas e che quindi l’Olocausto non era accaduto. Grazie all’interpretazione dei disegni tecnici e dei resti architettonici di Auschwitz in una prospettiva d’indagine scientifica Jan van Pelt fu in grado di ristabilire la verità.

Dopo il cosiddetto “caso Irving” Jan van Pelt pubblicò The Case for Auschwitz (2002), libro in cui espone le convincenti prove contenute nelle originali relazioni dei periti e illustra il modo in cui queste prove furono esposte durante il processo.

Passando dal libro all’installazione, The Evidence Room fa un’affermazione davvero forte e cruda: gli architetti possono anche progettare fabbriche della morte. Quindi, come ci ricorda Jan van Pelt, capire l’architettura delle camere a gas può essere importante quanto saper leggere la storia delle grandi cattedrali. Ispirandosi al suo maestro, lo storico del Rinascimento Frances Yates, autore del celebre The Art of Memory (1966) [2], l’opera di van Pelt si fonda sull’idea di “costruire una specie di serbatoio della memoria”. In The Evidence Room lo stucco bianco è usato come simbolo materiale della prova. Niente trasmissioni, niente suoni, niente grafica e quasi niente testo. “Non volevamo che sembrasse la ricostruzione di una camera a gas”, dichiara McKay. “Volevamo purificare questo spazio da ogni sentimentalismo.” Il risultato, più che una ricostruzione, è un monito. The Evidence Room vuole ricordare lo spazio del Crematorio 2, una grande stanza sotterranea destinata agli omicidi con il gas di cianuro che poteva contenere 2.000 persone in piedi.
The Evidence Room
The Evidence Room
Con l’aiuto di alcuni studenti, il gruppo della University of Waterloo ha creato un’esposizione fatta interamente di copie e calchi in dimensioni reali di fondamentali prove architettoniche (come una conduttura verticale per il gas, una porta a prova di gas, una sezione di parete con una stretta fessura per il passaggio del gas, disegni tecnici, lettere di architetti, fatture di costruttori, fotografie e così via). Usare il gesso (materiale spesso adoperato per documentare le prove) e il gesto della colatura è stata una efficace scelta del curatore. L’ambiente che ne risulta, anche se può apparire troppo primitivo, offre una lettura metafisica che getta luce su alcuni dei momenti più bui della nostra storia, sottolineando al tempo stesso il valore simbolico del gesto del colare il gesso, e fondandosi sull’inseparabile complicità tra presenza e assenza.
Come ben spiega Anne Bordeleau nel catalogo della mostra “The Evidence Room vuol mettere in luce le differenti concezioni – istituzionale, culturale e architettonica – di un ambiente”. Dalla stanza del crematorio all’aula del tribunale alla sala della mostra, è fondata su un’esperienza visiva e forse perfino tattile che i curatori ricreano e in qualche modo suggeriscono in base all’esperienza di coloro che oltrepassano “la porta dalla quale nessuno entra più di una volta”. In un altro spazio una versione più piccola dell’installazione della Biennale sarà esposta all’Octagonal Gallery del Canadian Centre for Architecture di Montréal da giugno a settembre 2016.

Note:
1. Anne Bordeleau, “The Cast Court” in The Evidence Room, Toronto, New Jewish Press, 2016, p. 113.
2. Trad. it. di Albano Biondi e Aldo Serafin, contributi di Ernst H. Gombrich, L’arte della memoria, Torino, Einaudi, 2007.

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