Nello spirito del trattato dell’Alberti, le lettere di oggi sono implicitamente indirizzate ad altri architetti oltre che alle autorità di governo. Che i sindaci leggano realmente una delle lettere o vi badino, resta da vedere. Ma Letters to the Mayor usa il progetto d’allestimento come riferimento alle dinamiche del potere, del patrocinio e dei processi creativi. Ogni spazio in cui le lettere vengono esposte comprende una simbolica ‘scrivania del sindaco’ e un simbolico ‘tavolo dell’architetto’. Per esempio nell’allestimento del 2015 a Mariupol, in Ucraina, i designer di IZOLYATSIA hanno contrapposto una scrivania del sindaco da “riccone”, bizzarramente avvolta in finta pelliccia, all’umile scrivania di legno dell’architetto, confinata in un angolo.
A Buenos Aires il Grupo Bondi (Eugenio Gómez Llambi, Iván López Prystajko) ha fuso lo spazio di lavoro del sindaco e quello dell’architetto in una specie di stratificazione: una massiccia scrivania da burocrate coperta di chiazze colorate di pigmento a cera (alla maniera delle opere in colatura di lattice di Lynda Bengli degli anni Sessanta), che gocciolano giù dai bordi e schizzano il pavimento. Le si può leggere come il residuo degli appassionati tentativi degli architetti in favore delle loro amate città, che talvolta non sfociano che in uno spreco di inchiostro, di sforzi e di vita. Ma in alternativa possono rappresentare la vendetta dell’architetto sul burocrate che impedisce la realizzazione delle sue migliori idee: un’orgia di colori violenti invade tutta la scrivania, rendendola inutile ma in definitiva bella: un monumento alla frustrazione del processo creativo. Un terzo elemento inserito in ognuna delle tappe dell’itinerario di Letters to the Mayor, oltre alle lettere e alle scrivanie, è una decorazione murale che riflette idee e questioni specifiche di ciascuna città.
Certi architetti si sono spinti a lanciare specifiche idee progettuali, sperando di avvantaggiare le loro cause preferite. Con un esempio memorabile Yvonne Farrell and Shelley McNamara (Grafton Architects) chiedono al sindaco di Dublino di “compiere un piccolo gesto che avrebbe un grande peso”, e cioè aprire al pubblico la corte che sta davanti alla sede del municipio. “Per favore, tolga di mezzo quei paracarri e quelle auto parcheggiate, e restituisca lo spazio alle persone […] Faccia sì che lo spazio sia vissuto come un luogo della vita della città”, scrivono, aggiungendo poi: “Può far sistemare due lunghe, ampie, comode panche di pietra addossate alla facciata, riscaldate da pannelli solari, in modo che siano sempre calde e asciutte. Vi si potrebbe integrare una tettoia mobile per proteggerle dal vento e dalla pioggia, e anche un bagno nascosto e discreto”.
Azra Aksamija
(MIT) invita il sindaco di Sarajevo a unirsi alla campagna del suo gruppo per salvare dalle minacce cui sono sottoposti i musei nazionali, le gallerie d’arte e le biblioteche della Bosnia ed Erzegovina. Sonja Dümpelmann
(Harvard University) difende la tesi di mantenere l’ex aeroporto di Tempelhof, a Berlino, come spazio prevalentemente libero, ovvero “vuoto”, invece che costruirci parchi o palazzi d’appartamenti. E Marisa Yiu (ESKYIU) ribatte alla proposta di limitare il numero crescente dei turisti di Hong Kong con una controproposta consistente nell’aumentare il numero dei percorsi pedonali sopraelevati, controllando in questo modo l’estrema densità.