Il 7 e l’8 giugno OMA e la Biennale hanno varato i Weekend Special: 21 incontri dedicati a vari temi tra cui l’avanguardia. E le Corderie sono diventate un teatro vivente, pulsante al ritmo dei visitatori.
La Biennale di quest’anno, mentre da un lato esplora i “fondamentali” dell’architettura, dall’altro strizza l’occhio al radical: quello dell’Italia degli anni Sessanta e Settanta e forse anche a quello di oggi (se mai esiste).
Il 7 e l’8 giugno OMA e la Biennale hanno varato il primo di un lungo ciclo di manifestazioni settimanali, i Weekend Special: 21 incontri dedicati a vari temi tra cui l’avanguardia, il racconto transmediale, la vita notturna, gli spazi sacri, le trasformazioni della casa, la mediazione tra sociale e urbano, la decolonizzazione – per citarne solo qualcuno. I Weekend Special, parte effimera ma integrante della mostra “Monditalia”, si svolgono negli spazi delle Corderie dell’Arsenale, animando l’ambiente monumentale delle sale d’esposizione. Molto diversi – per forma come per taglio – gli incontri “Radical Pedagogies: Action-Reaction-Interaction” e “Towards a New Avant-Garde” (“Pedagogie radicali: azione, reazione, interazione” e “Verso una nuova avanguardia”) hanno condiviso l’interesse per il radicalismo, analizzandone la storia e mettendone in discussione l’attualità.
“Stay Radical”, (“Sii radicale”), era il motto del secondo incontro, impresso sui begli opuscoli e sulle borse appositamente realizzati per la Biennale. Ma che cos’è il radicalismo e che cosa significa la parola nella situazione di oggi? E ancora: perché questa parola è diventata recentemente così di moda, soprattutto in questa Biennale? Riprendendo il tema di Koolhaas, ‘radicale’ si può definire all’incirca ciò che è in rapporto o riguarda la natura fondamentale di una realtà; ha un senso generale e totalizzante. E, comunque, significa anche il distacco dalla tradizione: qualcosa di innovativo e progressista. Il che sintetizza abbastanza bene l’obiettivo della 14. Mostra Internazionale d’Architettura veneziana: tornare alla radici dell’architettura, della Modernità, in Italia e in tutta la civiltà occidentale, per proporre una nuova forma per un’istituzione che, dopo la sua rutilante nascita del 1980, si è rivelata feralmente improduttiva.
Il progetto di ricerca “Radical Pedagogies”, condotto da Beatriz Colomina, docente della Princeton University, insieme con Britt Eversole, Ignacio G. Galán, Evangelos Kotsioris, Anna-Maria Meister e Federica Vannucchi, analizza un gruppo di sperimentazioni pedagogiche che ha avuto una parte cruciale nello sviluppo della teoria e della prassi dell’architettura della seconda metà del XX secolo. Un titanico lavoro di ricerca, raccolta, organizzazione e infine presentazione della ricerca di questi cinque dottorandi di Princeton e di 48 altri ricercatori, che hanno lavorato su 65 casi di studio sparsi in 15 Paesi, ciascuno associato con un numero di parametri che andava da 3 a 7.
Iniziata già nel 2010, Radical Pedagogies ha fatto oggi un ulteriore passo avanti grazie a un’esposizione di circa 90 metri quadrati – oggi comunemente citata come “la parete di Radical Pedagogies” che fa parte di “Monditalia”, e con una manifestazione collaterale concepita come una specie di contraltare vivente dell’esposizione. La ricerca di gruppo è il modus operandi di Colomina – lo si è già visto in altre imprese come “Clip, Stamp, Fold: The Radical Architecture of Little Magazines, 196X to 197X” e “Playboy Architecture, 1953-1979”. Come la ricercatrice ha ricordato il 7 giugno, il lavoro del gruppo può assumere la forma di un libro, di una mostra o, in questo caso, di un seminario aperto al pubblico. La premessa su cui si fonda il progetto “Radical Pedagogies” è l’ipotesi che, se negli anni Sessanta e Settanta è esistito un progetto radicale, una delle ragioni è che anche il sistema della formazione era radicale. Ma Colomina ribadisce: “Radical Pedagogies non è un ossimoro: delinea un percorso dalla sovversione all’istituzionalizzazione, prendendo in considerazione non soltanto la pedagogia della scuola ma anche quella della strada”.
Benché il progetto “Radical Pedagogies” sia profondamente ricco e sia stato accolto con entusiasmo dai primi visitatori della Biennale (dove ha ricevuto anche una menzione speciale da parte della giuria internazionale), l’incontro del 7 giugno è stato troppo lungo (oltre due ore) e non sempre è stato all’altezza dell’ambizione di costituire un “luogo di pubblico scambio che inviti i protagonisti appartenenti a generazioni e paesi differenti a riflettere sulle sperimentazioni della pedagogia radicale in architettura, e magari a rivederle”. Una tavola rotonda nutrita e rigida ha riunito un gruppo di soliti noti: da Luca Molinari a Stefano Boeri, William Menking, Alessandra Ponte, Marco De Michelis, Gianni Pettena, Paolo Deganello.
Ciascuno ha presentato un punto di vista interessante ma eccessivamente ampio, dicendo troppo poco e con pochissime interazioni tra i differenti contributi, nonché tra gli interventi e la materialità dell’adiacente parete espositiva. Gli unici rappresentanti della generazione più giovane erano Joseph Grima e Gabriele Mastrigli: quest’ultimo ha svolto un brillante intervento che rivendicava una maggiore attenzione alla formazione all’architettura al di fuori delle istituzioni, sottolineando il ruolo pedagogico cruciale della rete.
“Towards a New Avant-Garde”, fratello minore di “Radical Pedagogies”, organizzato da Superscript – Vera Sacchetti, Avinash Rajagopal, Molly Heintz, in collaborazione con Catharine Rossi e Rossella Ferorelli – si è svolto sabato 8 giugno. L’incontro era animato da una mostra allestita in tempo reale, creata da 18 stampanti open-source, ideata dallo studio d’architettura DevSpace di Bruxelles e dal designer dell’interazione svizzero-francese Thibault Brevet. La manifestazione, molto più fresca e molto meno ufficiale, ha raccolto un’infinità di personaggi praticamente sconosciuti della nuova generazione, alcuni dei quali presenti anche a “Monditalia” (come Teresa Cos, Federica Vannucchi, Ignacio G. Galán e Anna-Maria Meister, Marco Ferrari, Brendan Cormier, Tamar Shafrir, Angela Gigliotti e Fabio Gigone). Ne è nato un dibattito interessante, benché non sempre rivoluzionario. “Internazionalizzazione”, “Azione collettiva” ed “Economia” sono stati i tre poli del dibattito.
Autorialità, esilio volontario (o piuttosto esodo, come la generazione dei seguaci di Koolhaas preferisce definire la propria condizione), identità, rete, collegamento, conversazione, generazione, validazione e valore sono le parole chiave venute in luce quel pomeriggio. E, per quanto possa suonare scontato, per molti è stata l’occasione di incontrare persone con cui interagivano pressoché virtualmente già da qualche tempo. L’ultima parola è toccata a Ippolito Pestellini Laparelli, curatore di “Monditalia”, exhibition designer e grande guru: “Se oggi c’è un modo di essere radicali”, ha affermato Pestellini, “sta nel convincere le imprese a essere partecipi di qualcosa che non sia solo economico, ma culturale”.
Tra sabato 7 e domenica 8 giugno le Corderie sono diventate un teatro vivente, pulsante al ritmo dei visitatori e del pubblico casuale. Nelle due giornate è sembrato che “Monditalia” avesse vinto la scommessa: creare, nello spazio della mostra, una polifonia di scambi, di contenuti e di mediazioni. È bastato per offrire un bello spettacolo che, anche se non si librava sulle acque della laguna, dice molto di una certa poetica dei primi anni del XXI secolo. Il dislivello generazionale tra un incontro e l’altro era chiaramente palpabile. Ma, sulla scorta dell’ispirazione dei documenti che campeggiano sulla parete di “Radical Pedagogies”, ci si può aspettare molto dall’energia emanata dall’incontro sulla “nuova avanguardia”. Continua alla prossima puntata.