Questo articolo è stato pubblicato su Domus 970, giugno 2013
Viviamo in un’epoca in cui noi, architetti cinesi, siamo così richiesti in ambito urbano, da parte di imprenditori ed enti pubblici, che evitiamo di interrogarci sul nostro ruolo nella società.
Spesso creiamo progetti dal nulla, semplicemente osservando la situazione davanti a noi e ridefinendo i problemi che vediamo. In un secondo momento, troviamo i mezzi per finanziare e costruire il progetto. Naturalmente, nel corso del tempo, quest’ultimo conosce un’evoluzione. Ho l’impressione che questo sia il principale contributo del nostro lavoro: non si limita a preparare buoni progetti, ma, piuttosto, considera diversamente il tema dei bisogni fondamentali.
La nostra attività inventa programmi e strutture, in modo da trovare un approccio alternativo allo sviluppo rurale. Infine, a livello personale, riflette un modo differente di essere architetto. Nel 2006, in occasione della nostra prima visita al villaggio di Shijia, assieme alla Shaanxi Women’s Federation e al Luke Him Sau Charitable Trust, gli abitanti del villaggio ci presentarono una lista di richieste. Noi, però, volevamo trovare un metodo progettuale che li mettesse in grado di risolvere i problemi da soli: non volevamo semplicemente donare una certa quantità di denaro.
Dopo aver studiato il caso, decidemmo di collaborare alla costruzione di un prototipo residenziale. Doveva diventare un modello, un punto di riferimento per uno stile di vita sostenibile. Avrebbe cercato di integrare materiali tradizionali, come i mattoni di argilla, con soluzioni contemporanee. L’idea non era quella di una casa da replicare in tutto il villaggio. I residenti sono individualmente coinvolti in un continuo processo di miglioramento delle loro residenze. Noi volevamo contribuire a dare forma a quel processo.
Nell’estate successiva, ho portato un gruppo di studenti dell’università di Hong Kong a compiere delle ricerche e ad analizzare ogni abitazione. Volevamo preparare uno schema per il nostro progetto e comprendere i cambiamenti drammatici subiti dallo stile di vita e dal modo di sostentarsi della popolazione locale. Volevamo iniziare da zero, senza dare nulla per scontato.
La nozione di villaggio tradizionale, infatti, non esiste più. Il processo di urbanizzazione degli ultimi 30 anni ha creato una dipendenza dalla città come principale fonte di reddito. Di conseguenza, la città è divenuta anche un modello di sviluppo. Per noi era importante registrare e comprendere le complessità del villaggio durante la transizione. È possibile avere un altro modello, un modello di sviluppo autenticamente rurale, altrettanto progressista ed economicamente sostenibile come quello urbano, ma completamente diverso da esso?
La “Casa per tutte le stagioni” è una dichiarazione programmatica sul modo attraverso cui abbiamo ridefinito il programma di una casa rurale. È una reazione contro la grande diffusione nei villaggi di banali abitazioni multipiano, fatte di calcestruzzo e mattoni, con tetti di tegole. Queste costruzioni hanno tutte lo stesso aspetto, tanto nel nord quanto nel sud del nostro Paese.
Edifici generici stanno prendendo il posto di modelli abitativi vernacolari che, invece, hanno saputo adattarsi gradualmente, nel corso dei secoli, al clima e al contesto. Vi è una sistematica cancellazione dell’idea di specifico da parte di elementi banali. Forse la maggiore resistenza a questa deriva è quella di costruire qualcosa di più specifico rispetto alla propria epoca e al proprio luogo. Una semplice abitazione è in grado di affrontare queste forze soverchianti?
Il processo di sviluppo rurale, oggi, favorisce la distruzione e l’abbandono degli elementi tradizionali in cambio del nuovo. La nostra casa tenta di costruire un ponte tra questi due estremi e di conservare la tradizione materica e costruttiva locale. Tuttavia, il progetto non consiste solamente nella costruzione di una tradizionale residenza con cortile.
Vuole anche studiare lo stile moderno, caratteristico dei villaggi, e rappresenta un tentativo di dare origine, in ambito architettonico, a un’evoluzione consapevole del linguaggio secondo cui vengono realizzate le case nei diversi contesti locali della Cina. Il nostro prototipo sembra riflettere la condizione della vita rurale, stretta anch’essa tra tradizione e modernità. In Cina, solo una frazione minuscola di tutto ciò che viene costruito è progettato da architetti.
Se iniziamo a confrontare l’1 % effettivamente progettato da noi architetti con il 99 % degli edifici che non lo sono, non dovremmo anche ripensare il nostro atteggiamento nei confronti del ruolo dell’architettura? Può l’architettura influenzare la percentuale che non è stata disegnata da noi? Per questa ragione, non sono interessato a costruire quanto più possibile o a costruire ogni volta che ne ho l’opportunità. Mi interessa, invece, capire come le poche strutture progettate da noi possano iniziare a confrontarsi con la maggioranza degli edifici che non lo sono e, magari, iniziare a cambiarli.
Concludo ripercorrendo la mia prima visita alle abitazioni collettive Tulou, nella provincia di Fujian. Rimasi stupefatto dalle centinaia e centinaia di costruzioni Tulou disseminate in tutta la regione. Dalle fotografie mi era parso di capire che ve ne fossero solamente pochi eccezionali esemplari, ai quali si faceva continuamente riferimento. In realtà, non avevano nulla di speciale, erano una tipologia abitativa normale. Mi stupì anche il fatto che ogni edificio fosse leggermente diverso da quello vicino. Era chiaramente visibile un processo ininterrotto di innovazione, condotto da persone che non si definivano architetti.
È possibile istituire un collegamento tra la pratica contemporanea dell’architettura e il ruolo di questi costruttori? Se il rapido sviluppo degli ultimi 30 anni ha condotto a una cesura nella storia, può l’architettura contemporanea operare anche all’interno di questo ambito, introducendo nuovi approcci a vecchi problemi, combinando nuove e vecchie idee e, alla fine, ricollegando passato, presente e futuro? La storia è un problema per tutti, ma è anche un tema che l’architettura sa affrontare in modo unico. Il paradosso dell’architettura è la sua capacità di incarnare simultaneamente passato, presente e futuro. L’architettura ricorda il passato, è testimone del presente e anticipa il futuro. John Lin, architetto e docente presso l’università di Hong Kong
Architetto: John Lin, Rural Urban Framework (RUF)
Responsabile del progetto: Kwan Kwok Ying
Gruppo di progetto: Huang Zhiyun, Maggie K. Y. Ma, Jane Zhang, Qian Kun, Katja Lam, Li Bin
Finanziatori: Luke Him Sau Charitable Trust
Collaboratori: Shaanxi Women’s Federation, Shaanxi Volunteers Association of Red Phoenix Project, Linwei District Women’s Federation, Qiaonan Town Government, Shijia Village Committee, the University of Hong Kong
Area costruita: 380 mq
Costo: $ 53.400
Costo unitario: $ 140/mq
Fase progettuale e costruzione: 2009–2012