Questo articolo è stato pubblicato su Domus 970, giugno 2013.
In Occidente, la nozione di spazio pubblico è spesso associata a quella di interesse collettivo, di bene comune. In altri contesti culturali, come nel mondo arabo contemporaneo, invece, lo spazio pubblico è guardato con sospetto. A seguito di anni di dominazione e colonizzazione europea, la sfera pubblica non ha mai rappresentato l’interesse collettivo ma, al contrario, è stata l’espressione di potere di un’élite bianca, violenta e sfruttatrice.
È in nome del pubblico che il regime si appropria di ciò che le persone hanno in comune: l’espropriazione delle terre è forse la manifestazione più evidente di come questa nozione non coincida necessariamente con l’interesse del popolo. Le autorità statali sono ossessionate dal controllo e dalla disciplina dei luoghi collettivi, finendo per distruggere il loro vero carattere di spazi per incontri casuali e attività non pianificate.
Ciò che fa più paura alle autorità è la possibilità di trasformare una piazza, un boulevard o una banale rotatoria in uno spazio politico, in cui il popolo possa riappropriarsi di una sovranità, disattivando la macchina statale.
Purtroppo, molti dei regimi che nel mondo arabo sono seguiti al colonialismo europeo hanno continuato a soffocare l’esistenza di spazi comuni, facendoli coincidere con la faccia burocratica e repressiva del potere. L’ondata neo-liberale che ha invaso anche il mondo arabo dagli anni Novanta ha finito per smantellare ciò che di pubblico ancora esisteva.
Tuttavia, le rivolte arabe iniziate nel 2010 hanno aperto nuove prospettive politiche: esse possono essere interpretate fondamentalmente anche come la volontà di riconquista del ‘comune’ nel mondo arabo. Le manifestazioni dell’Avenue Habib Bourguiba a Tunisi, le occupazioni della rotonda di piazza Tahrir al Cairo e di Dawar al-lu’lu’ a Manama sono solo alcuni momenti di reinvenzione e riappropriazione dello spazio collettivo.
Anche il progetto del Conservatorio nazionale a Beit Sahour è stato soprattutto il tentativo di fare leva sul programma di un edificio per la musica al fine di realizzare un luogo pubblico. Questa operazione è condotta in maniera abbastanza originale, cercando di manipolare e riutilizzare conformazioni urbane già esistenti nelle città arabe.
L’hosh—termine che identifica un raggruppamento di case intorno a un vuoto, diffuso soprattutto nei contesti rurali—è storicamente uno spazio che potremmo definire “semi-pubblico”, formato dalla giustapposizione di corpi di fabbrica atti a creare una sorta di luogo aperto interno: uno spazio introverso e protetto, ma, allo stesso tempo, aperto a un uso collettivo.
Nel conservatorio, la disposizione dei volumi è stata organizzata intorno a un patio centrale di forma rettangolare. Un lato di questo nuovo hosh rimane volutamente spalancato verso la città: una variazione alla tipologia classica, per dare più enfasi al suo carattere d’istituzione pubblica moderna.
Questa grande apertura è sottolineata dalla realizzazione, da parte della municipalità e su suggerimento degli architetti, di una strada pedonale commerciale, un souk all’aperto, un’onda di spazio pubblico che si fa largo tra il denso centro cittadino. L’unità dei diversi volumi è data dall’uso della pietra locale, un po’ come succede in tutte le città palestinesi, nel rispetto di un vecchio regolamento ottomano che imponeva l’uso della pietra come rivestimento.
Questa scelta costruttiva costituisce oggi la qualità maggiore dello spazio urbano palestinese: il rivestimento lapideo produce un’immagine unitaria, che bene si lega ai colori e alla consistenza del paesaggio circostante. A rompere con un uso tradizionale dei materiali nel conservatorio è l’inserimento di grandi vetrate, che accentuano la dimensione pubblica dell’edificio: vedere direttamente dalla strada, attraverso le ampie finestre, gli studenti suonare offre uno sguardo sulle attività della scuola, mentre, nelle calde serate estive, il patio centrale si converte facilmente in una sala da musica all’aperto.
Il cantiere è stato trasformato in un luogo di creazione collettiva: artigiani, muratori e impresa costruttrice hanno lavorato insieme in situ per trovare soluzioni che potessero essere prodotte localmente. Un chiaro esempio sono le semplici poltroncine, le sedie e i tavoli realizzati da un artigiano, la cui bottega si trova in uno dei campi profughi della città.
Ho incontrato l’architetto Elias Anastas un paio di volte per farmi raccontare l’origine e l’evoluzione del progetto. Elias fa parte di una nuova generazione di talenti palestinesi che sanno muoversi a loro agio tra l’iper-localismo della terra di origine e i luoghi della diaspora palestinese. Trovo queste figure particolarmente interessanti, perché non hanno scelto di seguire né mode internazionaliste né falsi localismi: sanno mettere in tensione mondi diversi senza appiattirli, senza banalizzarli facendone una caricatura per un più facile consumo globale.
Al contrario: complicando e problematizzando connessioni e differenze, sanno approdare a espressioni originali. Edward Said, a cui il conservatorio è dedicato, è stato tra i pochi intellettuali in grado di coniugare un appassionato impegno politico per la liberazione del popolo palestinese con una produzione intellettuale rigorosa, non sottomessa a ideologie politiche, ma intrinsecamente politica.