Questo articolo è stato pubblicato su Domus 969, aprile 2013
Entrate nel nuovo studio di Junya Ishigami, nel quartiere di Roppongi a Tokyo, e la prima cosa che noterete, tra postazioni di lavoro e tavoli ingombri di plastici, è un grande foro spalancato nella lastra di cemento del pavimento. Decido di dare un’occhiata in basso, nel seminterrato, e vedo un mare di modelli di progetti più o meno recenti, ammonticchiati disordinatamente fin dove l’occhio riesce a spingersi.
I collaboratori di Ishigami (un numero relativamente limitato, se si considera la prodigiosa produzione di plastici dello studio) paiono essersi così abituati all’inusitata presenza di un un’apertura nel pavimento da non farci più caso, e sembrano leggermente meravigliati del fatto che io me ne sorprenda. Come tutti i veri visionari, Ishigami opera creando poderosi campi di realtà distorta, e il buco nel pavimento è forse la cosa meno anomala che i suoi assistenti devono imparare a metabolizzare. Per lui, ciascun progetto rappresenta un’opportunità per mettere in dubbio i presupposti fondamentali di ogni aspetto della pratica architettonica: dallo sviluppo ingegneristico all’arredamento, dalla circolazione al controllo climatico, Ishigami immagina una condizione o un’esperienza.
Sopra, un sottile strato di terriccio trasforma il tetto stesso in un paesaggio di erba e piante. Il padiglione è, al tempo stesso, una megastruttura e uno spazio intimo — un gesto spontaneo ma sbalorditivo in quanto a scala — e, come i precedenti lavori di Ishigami, presenta una dimensione profondamente umana: mentre la lastra d’acciaio del tetto si espande e si contrae per effetto dei mutamenti climatici, l’altezza del soffitto varia fino a 80 cm, come se l’edificio fosse vivo e respirasse.
Con l’incarico per un complesso abitativo per anziani affetti da demenza senile, Ishigami ha nuovamente aggirato il convenzionale itinerario che porta alla costruzione di un edificio. Le specifiche di progetto sottolineavano la necessità di un ambiente architettonico che i residenti dovevano essere in grado di riconoscere con facilità, capace di agevolare il processo d’identificazione di ciascuna abitazione per mezzo delle caratteristiche uniche di ogni singolo spazio. La strategia proposta impiega una tecnica nota in giapponese con il termine Hikiya, parola con cui si indica lo spostamento di una casa da un luogo a un altro senza smontarne la struttura: anziché essere un singolo edificio, il centro è composto da una serie di abitazioni in legno provenienti da villaggi di tutto il Giappone. In effetti, è molto simile a un piccolo agglomerato urbano, compresso all’interno del sito di un unico edificio, dove i singoli elementi si adattano perfettamente in una sola struttura architettonica grazie alla griglia del materasso tatami, intorno alla quale è organizzata gran parte dell’architettura domestica giapponese.
Questo approccio può essere descritto come un esercizio sull’atto di non creare un’immagine architettonica: diversamente dalla maggior parte degli altri esempi recenti di edilizia abitativa in Giappone, l’esterno è controllato fin quasi ad apparire anonimo, pressoché perfettamente mimetizzato nel suo contesto urbano, ordinario e piuttosto aspro. All’interno, tuttavia, l’atto di produrre architettura è racchiuso nel desiderio di creare un paesaggio—obiettivo chiaramente espresso dalla porzione di suolo lasciato scoperto nel soggiorno, dalla cui terra una piccola foresta di alberi s’innalza nello spazio a doppia altezza. Guardando fuori in strada, ci si rende conto che l’ambiente interno di questa abitazione è sentito come uno spazio più naturale di quello regolare e allineato che caratterizza il quartiere circostante.