Questo articolo è stato pubblicato su Domus 957, aprile 2012
"L'hortus conclusus riassume in sé un magnifico insieme di aspetti
diversi. Si sforza di comprendere il paesaggio che nega, spiega il
mondo che esclude, accoglie la natura che teme e somma tutto
questo in una composizione architettonica".
Rob Aben, Saskia de Wit, The Enclosed Garden, 1999
Nel 2011, alla Khoj Marathon di Nuova Delhi, Hans-Ulrich
Obrist intervistò Bijoy Jain, l'unico architetto invitato alla
manifestazione. In una narrazione quasi cinematica, Jain
descrisse l'esperienza di recarsi, nel mezzo di una sferzante
pioggia monsonica, dal suo studio alla casa di un collaboratore,
un carpentiere, dopo aver appreso la notizia della sua morte.
Raccontò dell'apprensione sorta nell'affrontare il tipico paesaggio
rurale e dell'impatto dei fenomeni naturali sui concetti di spazio
delimitato e di spazio aperto, sia in campagna sia in città.
Nel processo di costruzione di una casa di campagna,
commissionata da clienti di Mumbai, quest'inquietudine assume un ulteriore livello di complessità.
Jain illustra l'incerto rapporto
col paesaggio di un tipico abitante urbano che attraversa il porto
e s'inoltra in campagna, il suo esitante approccio con la natura e
l'analfabetismo che si manifesta nella relazione tra corpo e terra.
Situato da 17 anni nella periferia che si apre oltre il porto della
città-isola di Mumbai, Studio Mumbai si è evoluto, diventando
un esempio particolare di esercizio dell'architettura, soprattutto
nel momento in cui s'appresta ad ampliare la sua attività con una
sede in centro. Nel contesto di questa prassi 'iterativa', per quanto
direttore di un atelier multidisciplinare, Bijoy Jain è solo un tassello
di un gruppo di figure professionali: con un'esile differenza,
durante il lavoro, tra l'architetto indiano e i muratori, i carpentieri,
gli ingegneri e i progettisti che collaborano alla realizzazione dei
suoi edifici. L'insieme funziona come un'"infrastruttura umana",
che progetta e costruisce direttamente, con una mediazione
minima nel genere oggi consolidato del rapporto tra architetto e
imprenditore edile.
La casa dei monsoni
Progettata da Studio Mumbai, la Copper House II è un elegante rifugio immerso in un bosco di alberi di mango, ma anche un manufatto in grado di resistere all'intensità delle tempeste tropicali.
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- Radhika Desai
- 28 aprile 2012
- Chondi
Servendosi del monsone per compattare la terra che si era accumulata durante lo scavo di un pozzo, Studio Mumbai ha iniziato a lavorare alle fondamenta di quella che sarebbe poi diventata la Copper House II. L'inondazione, che colpì nel 2005 Mumbai e il suo hinterland, aveva lasciato il segno del livello raggiunto dall'acqua sulla struttura di una stazione di pompaggio presente nel sito e, usando questa linea per registrare il dato per la casa, nel 2010 è stata realizzata una fondazione a palafitta a circa 60 centimetri sopra la quota raggiunta dalle acque. La parte centrale è stata riempita con il materiale ricavato dal pozzo e intorno a una corte è poi cresciuta la casa. Il linguaggio e la logica dell'edificio vanno individuati in tre mosse architettoniche. La prima è la creazione di due blocchi distinti, che variano in larghezza di 30 centimetri. Separati da un cortile lastricato, sono uniti da un tetto piano in rame al livello superiore, dove funzionano da spazi privati: il primo, da utilizzare come stanza da letto e bagno; il secondo, con uno studio aggiuntivo.
Al piano terra, una camera matrimoniale, priva dell'intimità degli spazi precedenti, si va ad aggiungere alla zona giorno principale. Questo spazio funge letteralmente da ponte di comando della casa e domina il paesaggio e la corte, creando una simultaneità di prospettive, ciascuna differente in scala e accessibilità. Gli spazi più intimi, chiusi in alto dal tetto in rame, sono posizionati in modo da creare una mutua tensione, garantendo in parallelo privacy e isolamento, essenziali in un interno domestico. Questa strategia spaziale dà luogo, inoltre, a vari livelli di comunicazione, visiva o di altra natura, tra gli spazi superiori e inferiori dell'edificio. In Kerala, ancora più a sud lungo la costa della penisola indiana, come in molte altre regioni del subcontinente, la corte rappresenta tradizionalmente il cuore della casa. L'ambiente centrale, formato da un atrio circondato da colonne, era chiamato naalukettu. L'intera struttura, con il cortile e le quattro ali circostanti, era comunque, a sua volta, comunemente indicata con lo stesso nome. Questo riferimento alla corte come fosse l'abitazione stessa contiene il motivo che ha portato allo sviluppo di questa casa, evolutasi da una struttura che racchiude a una che si apre.
Parlando della sua architettura, Jain fa spesso riferimento all'idea di tempo. Racconta di usare il tempo come misura.
La seconda scelta è quella di una stratificazione della luce ottenuta per mezzo di una serie di gesti materiali—ciascuno rivolto alla direzione della luce e alla necessità di creare livelli diversi di intimità. Tutto questo s'articola tramite schermi fabbricati con tessuto di rete incorniciato in legno in omaggio alla tradizione, vetro scanalato che diffonde la luce e i riflessi della vegetazione alludendo anche alla città assente, e finestre in legno scorrevoli e ad ante—tutte soluzioni che permettono di ottenere livelli diversi di trasparenza. Le pareti sono intonacate col tradizionale color verde pallido, lisce come la pelle umana ma con una delicata superficie craquelé, e creano la fuggevole impressione di un contenitore di ceramica frammentato, rettilineo e chiuso da un coperchio di rame ossidato. Il piano continuo del tetto in rame rappresenta un dato secondario della casa, diventando una superficie potenzialmente occupabile, oltre che una copertura.
L'ultima scelta riguarda l'inclusione dell'elemento 'acqua'—sia in forma di pioggia monsonica, inarrestabile nella sua azione su materiali e stato d'animo, sia sotto forma di pozzo, canale e vasca sul retro dell'abitazione. L'irrequietezza' stagionale del terreno è affrontata nel disegno secondo il quale la pavimentazione è disposta nella corte, in modo lineare continuo, e in un anello più irregolare intorno alla casa, con ondulazioni che registrano il flusso dell'acqua piovana mentre raggiunge il pozzetto più vicino. Il portale d'ingresso all'edificio è notevole nella sua articolazione quale 'non-luogo'. Collocato sotto il primo volume coperto in rame, diventa un luogo di pausa prima dell'incontro con l'hortus conclusus.
Parlando della sua architettura, Jain fa spesso riferimento all'idea di tempo. Racconta di "usare il tempo come misura", riferendosi non solo ai processi di progettazione, realizzazione e verifica dei prototipi, tutti necessariamente basati sul tempo, ma anche al semplice fatto che ci sia la sua inevitabile azione sui materiali, sulle forme e sulla percezione di ciò che si è, in un dato momento, presentato come nuovo. Il compianto Robin Evans, nel suo saggio del 1971 sottotitolato Notes Towards the Definition of Wall, sottolinea: "Il terreno del luogo appartato—la sua struttura, geografia e architettura—dipende dal contesto e dalle ideologie e intenzioni di quanti sono coinvolti". In questa casa, col suo hortus conclusus che agisce da contenitore e da filtro, Bijoy Jain mette alla prova nuovamente i rituali di ritiro, passaggio ed esclusione. Non diversamente dal rabdomante invitato a individuare la posizione ideale per il pozzo, egli ha intuito la posizione della roccia che ora si trova nel primo terzo della corte, come a presentirne l'arrivo. Questo gesto finale di alloggiare il masso giunto come un dono dalla madre del committente ha sigillato l'azione dello studio sul progetto, lasciando che sia ora il tempo, com'è inevitabile, ad assumere la guida.
Design Architects: Studio Mumbai Architects,
Bijoy Jain
Design Team: Jeevaram Suthar,
Punamchand Suthar,
Pandurang Malekar
Structural Engineering:
Dwijen Bhatt
Copper Cladding:
Jean-Marc Moreno
Colour:
Muirne Kate Dineen