Iberê Camargo è stato uno dei più importanti pittori espressionisti brasiliani, e il museo della fondazione a lui intitolata, ormai prossimo al completamento, è il frutto della prima commissione di Álvaro Siza nell’ex colonia portoghese. Anche se gli interni sono ancora incompleti, l’edificio ha già modificato il profilo di Porto Alegre, metropoli della provincia brasiliana, a metà strada tra San Paolo e Buenos Aires, e sede della prestigiosa Biennale di arte latino-americana. Impeccabile nella realizzazione, la massa di cemento bianco si solleva dalla pianura tra i verdi pendii di un promontorio e il trafficato viale che costeggia il fiume Guaíba. Per quanto è dato di vedere, questo è Siza al massimo della forma, e ciò a dispetto delle opinioni di Richard Ingersoll: quando il progetto si è aggiudicato il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 2002, il critico americano lo ha liquidato infatti come una “opaca versione dell’High Museum di Richard Meier, con un atrio cavernoso cinto da goffi passaggi interni” (http://www.techstrategy.com).
Certo è che i due musei condividono lo stesso schema di base, e lo stesso vale per il Casinò di Niemeyer, oggi Pampulha Art Museum. Un elemento centrale di circolazione a ‘L’ aderisce a un prisma diviso in quattro settori, tre dei quali ospitano gallerie sovrapposte, mentre l’interno diventa un atrio coperto. Come ha fatto osservare lo stesso Siza, le forme a ‘L’ (come nella sua Granell Foundation) e quelle a ‘U’ (come nel Museo Serralves) sono strumenti disciplinari, che si prestano ad acquisire una moltitudine di aspetti. L’opacità e la massa della sua opera brasiliana sono giustificate dalle esigenze museali, dall’esposizione a occidente e dal rumore della strada. Eppure, riprendendo le soluzioni utilizzate da Lina Bo Bardi nel Centro Ricreativo di Pompeia, quelle aperture che dall’esterno sembrano minuscole qui si allargano telescopicamente all’interno incorniciando il fiume, il cielo, la vegetazione della collina, la penisola del centro cittadino a quindici minuti di distanza: quella proposta da Siza è, in molti sensi, una macchina da contemplazione.
Questo belvedere rappresenta anche un punto di riferimento nella struttura urbana. Lontano dall’essere cavernoso persino oggi, l’atrio s’incurva per affacciarsi sul viale d’accesso, cinto da un sistema di doppie rampe collegate alle estremità con gli ascensori. Per niente interessato alla pianta libera e alla facciata, Siza non fa uso di una struttura convenzionale, ma condivide la predilezione di Le Corbusier – e di Wright – per i piani inclinati. Qui, quelli interni sono aperti a seguire la parete curva dell’atrio, mentre i sentieri pedonali esterni si liberano progressivamente e diventano un pretesto per generare un sorprendente atrio aperto. Da lontano, somigliano a un elmetto di Henry Moore posto dinanzi a uno splendido vaso che richiama vagamente Aalto. La loro goffaggine è sicuramente frutto di una scelta oculata, proprio come sia Lucio Costa, sia Lina Bo avrebbero suggerito: un richiamo al fatto che la perfezione non è di questo mondo, ma anche replica surreale dell’incantevole spontaneità del disegno di un bambino.
Nell’angolo opposto del pianterreno, che sarà occupato dalla reception e dal punto vendita del museo, una fenditura convessa genera la piattaforma di servizio coperta e coopera con le aeree rampe ad alleggerire il denso volume dei quattro piani del museo - allargandosi verso l’alto, diviene un felice contrappunto al piano inclinato. Torna di nuovo in mente il Guggenheim di Wright, ma anche i musei di Niemeyer a Caracas e Niterói. Tuttavia, a differenza della monotona geometria che caratterizza questi ultimi, un cono invertito e ritorto, una piramide rovesciata e una tazza, nell’ordine, e l’unione delle rampe alle estremità enfatizzano due momenti di verticalità ma anche di simmetria diagonale, dando così vitalità alla stratificazione delle facciate principali, la cui figuratività viene accentuata dai semplici prospetti verso la collina.
In effetti, questo volume emerge da una piattaforma posta a coprire un livello seminterrato che ospita il magazzino, gli uffici dell’amministrazione, una biblioteca, un auditorium e due laboratori, oltre a un garage sotto la strada. E questo volume non si innalza completamente solo, ma è accompagnato da un’ala inferiore. Costruita su una pianta triangolare per inserirsi nella porzione puntuta del sito, quest’appendice costituisce un’ampia introduzione al museo vero e proprio. Un pozzo di luce separa il volume che ospita le sezioni superiori dei laboratori a doppia altezza dalla caffetteria prospiciente l’atrio scoperto. Tali frammenti somigliano a delle placche di armatura sopra un braccio disteso, e intensificano le connotazioni antropomorfiche delle rampe. Avvicinandosi al museo lungo i laboratori, una finestra offre una vista sull’interno e, oltre, sulla collina, attraverso le grandi aperture praticate sulla parete opposta. Altre due finestre panoramiche illuminano gli angoli della caffetteria: una lascia vedere il fiume e il celebre tramonto di Porto Alegre, l’altra si affaccia sull’ingresso del museo. La frammentazione dell’ala rinforza il peso del volume dominante, mente la scala domestica attenua la sua monumentalità. Da lontano, o dalla media distanza, l’estesa composizione pare possedere la densità di un isolato urbano, pur senza perdere le caratteristiche di un complesso immerso nel verde: l’ambivalenza è quindi un fattore costitutivo dell’impresa brasiliana di Siza, e ciò sembra appropriato, dato che, come molti sosterrebbero, l’ambivalenza è un fattore costitutivo del Brasile.