La prima cosa che sorprende è la semplicità dell’edificio. Anche se le fotografie la fanno sembrare spettacolare, la nuova Seattle Public Library possiede una pacatezza e una misura che l’obiettivo non riesce a catturare; due doti che le hanno fatto raggiungere in brevissimo tempo un importante risultato: apparire ordinaria. L’edificio si muove a zigzag, e punta noncurante verso l’iconico, senza dar segno di sforzarsi per conseguire un risultato. Si può certo rimanere abbagliati dalla sua epidermide di vetro e metallo, ma basta entrare per dimenticarsene, perché l’uso dell’edificio esaurisce la sorpresa. Una volta all’interno, così, senza pensarci su, lo sguardo si alza dal libro per ammirare il crepuscolo su Elliott Bay o per vedere se Mount Rainier è visibile, grazie al fatto che le grandi losanghe di vetro che separano dall’esterno risultano pressoché invisibili.
Lo spazio si dispiega placidamente, più come una continuazione della città circostante che come un nuovo trionfante edificio. Tutto qui è artificiale, dai giganteschi fiori ed erbe serigrafati sulla moquette alle scale mobili dai lucenti rivestimenti in smalto color ‘antigelo’. Dalle travi in acciaio azzurro – lo stesso colore del cielo che si trova nei libri per bambini – ai vestiboli ciechi e inguainati in plastica rosso sangue, come un mostruoso intestino pensato per Ian Schrager, fino al verdino dei bagni. Persino le splendide viste sono artificiali, ricavate dal sito spingendo fuori asse i volumi sovrapposti dell’edificio, per rubare alla città delle prospettive più gradevoli: mescolate con il gioco liquido di immagini del traffico che si riflettono attraverso l’involucro in vetro della biblioteca, queste viste di Seattle diventano qualcosa di pregiato, di impuro e urbano. Nel mezzo di un panorama noioso e ordinario come quello di Seattle, il risultato è ragguardevole, e dimostra che si può essere intelligenti senza apparire enfatici e boriosi.
Altri architetti hanno semplicemente, ma ostentatamente, paracadutato il loro ‘genio’ in mezzo a questa monotonia, ottenendo un’orribile, forzata futilità – come voler a tutti i costi risultare interessanti a una festa noiosa: valga come esempio il Seattle Art Museum di Robert Venturi. Ma la nuova biblioteca evita questa dicotomia: non diventa tanto una parte distinta della città, quanto un’artificiale concentrazione di condizioni preesistenti. È un organismo poroso, capace di aggiungere intensità all’ambiente circostante, così che entrando si percepisce un’accelerazione dei flussi vitali. Come delle rapide che scorrono nel cuore della città. Alcune parti somigliano a un diagramma a bolle architettonico, arterie che connettono crescenti concentrazioni di attività. Suggerire che l’edificio è quel che Cedric Price definì un ‘condensatore’ – un’urbanistica fatta di uso e durata, piuttosto che definita da una particolare densità di tipologie architettoniche - sarebbe un’esagerazione. Ma Price va comunque menzionato: la sua franchezza, la sua caparbietà e la sua avversione per i monumenti permeano l’intero edificio.
Soltanto il bastione centrale è monumentale. Nessun altro elemento della biblioteca si impone in modo viscerale come questa ininterrotta colonna di cemento alta undici piani che trapassa il cuore dell’edificio, e che in basso si infila nel terreno, mentre in alto sfonda il tetto e termina in cielo. Tutto intorno ad essa è stata assemblata una varietà di atmosfere concluse che chiameremo ‘stanze’. Ecco allora la “Stanza di Lettura”, che scende azzurra e ariosa dalla cime, stendendosi fino al margine settentrionale del blocco. Sul lato opposto, al piano strada, ecco invece il ‘Soggiorno’ che straripa verso sud, come un’agorà supplementare che sparisce sotto a un’ampia balconata (la “Stanza degli Scambi”) e a un nero soffitto alto tre piani. Sopra lo sbalorditivo vuoto di questa volta si assiepa il sordo labirinto degli uffici del personale, un pavimento beige dopo l’altro, a imitare i grattacieli delle grandi multinazionali. Tornando a nord, sotto la sala di lettura, un’ininterrotta rampa di libri (la ”Spirale dei Libri”) si srotola dal 999 allo 0 della classificazione decimale Dewey e scende giù attraverso tre piani per terminare in un cul-de-sac vetrato che sporge nel vuoto trenta metri sopra il negozio retrattile della biblioteca.
Questi spazi non sono frutto di un’invenzione. Si tratta di forme urbane consuete – l’atrio, l’agorà, la torre per uffici, il suk, la piazza del mercato – raggruppate e avvolte da un’unica pelle. Trattandosi di un’epidermide di vetro, il passante potrebbe immaginare di trovarsi di fronte a uno strano gioiello o a una serra. Ma questa sensazione è smentita dal bastione centrale: i visitatori che entrano nel ‘Soggiorno’ si trovano infatti di fronte a nove piani ben visibili di calcestruzzo non trattato: ovunque ci si sposti, il peso e la possanza di questa colonna rimangono ben presenti. La sua solidità ridisegna gli spazi circostanti come un qualcosa di provvisorio, mere transizioni tra questo asse e tutto quel che lo circonda.
Ci si muove attraverso queste atmosfere levitanti, spalla a spalla con la città e il cielo, ed esse si manifestano non tanto come qualcosa di costruito ma più come una specie di accumulazione organica: parti uguali di aria, cemento, vetro, metallo, traffico, cielo, terra, panorami e spazi interni. In questo organismo, sono le risorse e i loro utenti a distinguere i percorsi di utilizzo, e ciascuna funzione si separa dalla successiva. I piaceri offerti dalla biblioteca sono principalmente picareschi. Una parete inclinata di legno intarsiato oscura un ampio angolo della biblioteca dei bambini, dove un pannello scorrevole si apre a rivelare una specie di box per bambini, da usare per leggere a voce alta ai più piccoli. Il pavimento è rivestito di moquette, la luce è soffusa e, quando ci si cammina accanto, i pannelli sovrapposti producono straordinari motivi marezzati – è facile prevedere che gli adolescenti in preda agli acidi ci passeranno giornate intere. Una ripida scala mobile taglia come una linea sottile quattro piani dell’edificio, come uno ski-lift che trascina lettori impazienti dal loro groviglio umano direttamente nel paradiso dei libri.
Dal fondo, lo sguardo sale attraverso il tetto di vetro fino al cielo. E dalla cima ridiscende giù, sull’inferno sottostante. Il verde pastello dei bagni inganna l’occhio, così che – uscendo – il bianco dell’ingresso diventa lavanda. E, capricciosamente, qualcuno ha fissato a quell’incredibile bastione, all’altezza dell’ultimo piano, un piccolo, fragile balcone. Sporge solo di un metro – o giù di lì – nove piani sopra i fiori serigrafati sulla moquette, lasciando il navigatore solitario ritto su quest’esile piattaforma, quaranta metri di vuoto sopra la massa dell’umanità sottostante. Anche se il significato non è chiaro, la logica appare irresistibile. Altri aspetti sono stati messi in luce dalla completa razionalizzazione delle strategie organizzative attuata dai progettisti. Scartata la disposizione a “piani semplici”, vista come uno dei limiti fondamentali delle vecchie biblioteche, gli architetti hanno analizzato il programma funzionale, raggruppando le attività in blocchi, secondo relazioni di parentela. Questi insiemi sono stati trasformati in forme architettoniche, come i “compartimenti spaziali” che vediamo aleggiare intorno all’asse centrale.
Questi vogliono far presagire un grande futuro – come dicono gli OMA: “La ‘Spirale dei Libri’ svincola i bibliotecari dall’incombenza di riorganizzare una massa di materiale in continuo aumento. Finalmente liberi, possono riunirsi in un circolo che è un concentrato di competenze” (la “Stanza degli Scambi”), “il punto di massima interazione bibliotecario-utente, un piano per lo scambio di informazioni orchestrate per rispondere all’essenziale bisogno (attualmente trascurato) di aiuto da esperti di ambito interdisciplinare”. Purtroppo, cari progettisti, questa retorica da Pollyanna getta un’ombra sul vero traguardo raggiunto dalla nuova biblioteca, ovvero non tanto il risolvere vecchi problemi quanto porne di nuovi. La retorica – o ancora di più – tutte le strategie organizzative degli architetti somigliano a progetti di viaggio. E, inevitabilmente, a volte vanno in pezzi. Nessun viaggio, del resto, è banale quanto una brochure. Altro che manicaretti in technicolor e discoteche di sogno: si finisce inevitabilmente per buttare gli avanzi dell’insalata nel WC o ballare ubriachi sul tetto dell’auto con gente che non parla la stessa lingua.
Allo stesso modo, abbonderanno per la biblioteca offese memorabili, i suoi vestibili rosso sangue saranno il luogo di ingravidamenti clandestini, lo stretto fossato ai margini della biblioteca dei bambini sarà una trappola per bimbi di due anni, mentre le modanature in alluminio mal fissate fungeranno da lance in mano a psicopatici rilasciati prematuramente. La carenza di personale trasformerà la “Stanza degli Scambi” da una promessa di fervide e pulsanti attività in un vasto triangolo delle Bermuda, un luogo di sbracamento e attesa. I tagli ai fondi svuoteranno le scrivanie del personale negli angoli più remoti, e ne faranno accampamenti mimetizzati, mercati di droghe e contrabbandi. Clienti smaniosi punteranno lo sguardo attraverso le volte dell’atrio verso il personale che, oberato di lavoro, si muoverà frettolosamente negli spazi riservati delle balconate – visibile, irraggiungibile, carico di risentimento. In tutto l’edificio, il genio inquietante di OMA per questo genere di simultaneo mostrare e nascondere – passaggi chiusi da vetrate; scaffali ad altezza d’uomo che lasciano intravedere obbiettivi irraggiungibili; lunghissimi parapetti galvanizzati; una solitaria scala mobile che sale solamente; viste panoramiche su vuoti vertiginosi – reciterà la sua logica inesorabile.
Ma la consumata razionalità dell’organizzazione interna della biblioteca finirà allagata dal sangue e dalle viscere dei vivi. Non si tratta tanto di difetti quanto di cose inevitabili. Qualunque abile procacciatore di sogni non può non consegnarci anche ai nostri incubi. OMA ha studiato i desideri del committente, li ha razionalizzati, e ha costruito intorno a essi un’armatura fisica. Dar vita a una sorta di teatro dei sogni sul quale fondare il design dell’edificio è, come si sa, il metodo di OMA. La nuova biblioteca rievoca il subconscio (in questo caso della città) non nell’essere in se stessa prodotto da sogno o da incubo (o in alcun modo ‘surreale’), ma piuttosto per le sue caratteristiche di linearità e chiarezza, come un buon letto o uno specchio.
E se alcuni dicono che ci siamo sognati un edificio che è una specie di sfavillante Candace Bushnell, quel che OMA in realtà ci offre è l’ordinaria normalità di Kafka. Con un po’ di fortuna, gli incubi del XXI secolo si materializzeranno proprio qui – per parte mia, ne sono lieto. E non c’è davvero modo di prevedere che forma avranno. (Matthew Stadler)