Anne Marion, mecenate e filantropa, acquista nel 1996 un esteso appezzamento di terreno per costruirvi il nuovo Museo d’Arte Moderna di Fort Worth, proprio di fronte al Kimbell Art Museum di Louis Kahn; successivamente contribuisce anche alla scelta di Tadao Ando come architetto cui affidare la progettazione dell’opera.
Quando qualcuno si è scusato con Ando per la mancanza di spettacolarità dell’area destinata al nuovo museo, l’architetto ha risposto: “Ma il Kimbell è una montagna!”. Al capolavoro di Kahn, Ando ha replicato adottando una strategia affine; ha cioè suddiviso il complesso in cinque sobri padiglioni, collegati l’uno all’altro. In contrasto però con l’imperturbabilità delle forme chiuse del Kimbell – una serie di cappelle, di scrigni rivestiti di travertino in cui sono serbati preziosi gioielli dell’arte classica e degli inizi dell’arte moderna – Ando ha dato a The Modern (così chiamano a Fort Worth il nuovo museo) un senso di apertura, di movimento, di elasticità.
In questo, che finora è l’edificio di maggiori dimensioni costruito da Ando fuori dal suo paese natale, l’architetto dimostra di aver saputo cogliere e assorbire il genius loci, creando un centro, un’agorà per la popolazione di questa città sparsa nella prateria, oltre che una vetrina dinamica e vitale per l’arte contemporanea. Le pareti piene, che di solito nascondono il cuore dei suoi edifici giapponesi, qui sono diventate schermi trasparenti che sfumano e rendono fluidi i confini fra architettura, acqua e cielo.
L’elegante fronte sud e i cinque tetti aggettanti a ovest, a mo’ di pensiline, danno l’idea di un campus dalle pareti continue di vetro, con giunti portanti di alluminio. A est, oltre gli spazi di riunione e gli uffici, tre gallerie espositive collegate l’una all’altra si affacciano e si riflettono in uno specchio d’acqua poco profondo, circondato da un muro di confine in cemento. I tetti sporgenti, sostenuti da pilastri a ipsilon, riparano le vetrate che avvolgono i due piani delle gallerie. L’elemento che attira l’attenzione, per così dire la ‘firma’ del museo, è un’opera di Richard Serra, Vortex, una specie di bozzolo alto 21 metri in lastre di acciaio Corten, posto sull’angolo di fronte al bronzo di Miró che segna l’ingresso del Kimbell, dall’altra parte della strada.
All’interno del complesso non c’è bisogno di segnaletica: è il linguaggio stesso dell’edificio che guida il visitatore attraverso le gallerie, al di là del maestoso atrio e della grande scalinata che porta al secondo piano. A sinistra dell’ingresso si trovano lo shop del museo e la sezione didattica; a destra, l’auditorio da 250 posti, rivestito di quercia, e il ristorante, situato in un padiglione vetrato di forma ellittica che si affaccia sullo specchio d’acqua e sulle gallerie. Una stretta passerella, sostenuta da due snelle colonne, collega gli uffici del secondo piano alle due estremità dell’atrio. Ancor prima che il visitatore sia coinvolto nella contemplazione delle opere d’arte, Tadao Ando comincia a creare delle attese visive con uno spazio sereno e luminoso, che offre allettanti scorci su ciò che c’è oltre. Trionfo di finezza e di equilibrio, il museo è fatto di pochi materiali usati dappertutto e di stratificazioni spaziali che danno origine a una ricca ‘tappezzeria’ di riflessi e prospettive.
I pavimenti di granito e le pareti di cemento, gettato con tecnica impeccabile, riflettono un quieto splendore nella luce naturale che entra in abbondanza. Di notte, dalla corte, l’edificio ricorda una schiera di lanterne che galleggiano sull’acqua. Al pari del Kimbell, questa è un’oasi per lo spirito, un luogo di quiete e di contemplazione. Ricorda allo stesso tempo la Cappella della Luce e il Tempio dell’Acqua ad Awaij, oltre che gli altri musei costruiti da Ando.
Dei 15.300 metri quadrati totali, le gallerie di esposizione ne occupano 5.400 (anziché i 7.500 programmati inizialmente). Questo rende le dimensioni del museo seconde soltanto a quelle del MoMA di New York (fra tutti i musei americani di arte contemporanea) e ha quasi moltiplicato per sei quelle della vecchia sede. Molto più importanti delle dimensioni sono però la gerarchia degli spazi e il modo in cui essi fluiscono l’uno nell’altro.
Ambienti a doppia altezza, con pavimenti di granito in grado di reggere il peso di enormi sculture, si alternano a sale raccolte, dalle pareti bianche e dai pavimenti di quercia, al primo e al secondo piano. Risalta la ritmica alternanza di vani di 13 metri, illuminati indirettamente da aperture tagliate nella fascia superiore delle pareti, e di vani di 8 metri, con lucernari e soffitti rivestiti di tessuto semitrasparente.
La cruda luce solare viene così diffusa, filtrata, ammorbidita, ma non negata. Ampie aperture con bordi ad angolo acuto o smussati collegano le gallerie attigue, mentre sugli spazi a doppia altezza si affaccia una serie di balconate. Ambulacri vetrati avvolgono le tre ali delle gallerie e si dissolvono nelle increspature e nei riflessi dell’acqua al livello inferiore, sfociando invece nella terrazza delle sculture al livello superiore, sul retro. Troppo spesso i musei d’arte contemporanea sono costruiti solo per l’apparenza: monumenti in cerca di uno scopo, trattano l’arte come fatto accessorio di quello che è soprattutto spettacolo pubblico.
A Fort Worth il ruolo degli amministratori e quello dei curatori sono invece nettamente distinti e si rafforzano reciprocamente. La direttrice Marla Price ha guidato l’attività di un gruppo che ha seguito tutte le fasi dell’opera, ha fornito agli architetti partecipanti al concorso un programma chiaro e preciso, ha selezionato il progetto di Ando e ne ha sorvegliato la realizzazione, entro i termini di tempo stabiliti e il budget previsto di 65 milioni di dollari. La costruzione di una quarta galleria è stata rimandata; i pilastri a ipsilon (previsti in origine all’interno) sono stati spostati all’esterno della ‘pelle’ di vetro, per eliminare ogni ingombro nello spazio espositivo e fornire al tempo stesso un migliore sostegno all’aggetto della copertura.
L’alluminio ha preso il posto del vetro nelle superfici esposte direttamente al sole. Peter Arendt, direttore del progetto e dei lavori, elogia la disponibilità di Ando ad accogliere indicazioni e suggerimenti del committente e anche (se necessario) a modificare il progetto senza comprometterne l’integrità: Ando ha saputo instaurare con gli altri architetti un dialogo continuo, per migliorare ogni minimo dettaglio, fino alle eleganti panche di quercia e acciaio usate in tutto il museo.
Per l’impresa costruttrice la realizzazione delle parti in cemento armato è stata un vero e proprio banco di prova. Negli Stati Uniti il cemento armato non è quasi mai lasciato a vista: raramente viene quindi richiesto l’altissimo livello di qualità delle casseforme e dei dettagli indispensabile nelle opere di Ando e ancor più raramente viene raggiunto. La Linbrook Construction ha dimostrato grande determinazione nel seguire l’architetto e il suo esigente committente. Dopo ampie e approfondite ricerche in Giappone, dopo numerosi test sui diversi tipi di sabbia, dopo ripetuti modelli di prova, si è arrivati ai massimi risultati.
Le superfici sono vellutate e prive di incrinature, ma ricche di sfumature, senza la piattezza che può risultare da un impasto troppo chiaro e uniforme. Ricordano la pietra lasciata all’aperto, all’azione degli elementi atmosferici, e anche nelle parti di passaggio danno al visitatore l’impressione di trovarsi in presenza dell’arte. In una città in cui d’estate la temperatura può raggiungere i 40°C, è stato necessario eseguire le colate di notte, e a volte anche aggiungere ghiaccio all’impasto.
Come si è visto nella mostra inaugurale, il curatore Michael Auping ha usato brillantemente gli spazi per valorizzare questa grande collezione d’arte della fine del ventesimo secolo. L’opera Book with Wings di Anselm Kiefer si dispiega fino a invadere completamente una forma ellittica di cemento, che serve come area espositiva intima e raccolta, oltre che come una sorta di zona cuscinetto che convoglia i visitatori verso la scalinata principale. Alla sommità della scala, un autoritratto di Warhol – spaventoso come un demone giapponese – è fissato a una parete priva di aperture.
Ovunque si giri, il visitatore si trova davanti a opere collocate in modo così felice da fargli pensare di starne scoprendo l’autore per la prima volta. Sul fondo, una stretta scala si insinua con eleganza nello spazio fra il cemento e le pareti di vetro, come se accompagnasse il visitatore fin dentro il brillio della superficie d’acqua. Il Modern di Fort Worth è il prodotto della passione e di una progettazione attentissima, il risultato dell’incontro fra un committente che chiedeva l’eccellenza e un architetto che ha risposto entusiasticamente alla sfida. In un’epoca di vuote esibizioni, è un edificio di sostanza, che ispira e stimola sia il visitatore occasionale sia l’appassionato d’arte.