Progettato da David Chipperfield, il museo ospiterà su circa 4000 metri quadri la più importante collezione privata di opere d’arte dell’America Latina, raccolta da Eugenio López, quarantenne erede di una famiglia produttrice di succhi di frutta. In termini di ampiezza e ambizione tra le imprese culturali messicane nate negli ultimi anni, il Jumex è paragonabile solo al vicino Museo Soumaya, del magnate delle telecomunicazioni Carlos Slim, progettato da Fernando Romero e inaugurato, in altrettanta pompa magna, nel 2011.
Con l’aiuto del partner locale TAUU, guidato dall’architetto Óscar Rodríguez, anziché creare un edificio introverso, Chipperfield affronta la sfida posta dal contesto. Una prima versione del progetto rompeva la struttura in una serie di piccole scatole, ma fu scartata per la natura della collezione che richiedeva grandi gallerie aperte. Così l’edificio divenne verticale, la goffa geometria addolcita dalla rifrazione.
Il progetto è stato ripensato e rielaborato in loco, così che solo pochi elementi sembrano fuori luogo. Per affrontare la complessa impostazione, Chipperfield si è concentrato sugli aspetti più positivi del contesto: un clima mite che permetteva un involucro aperto e terrazzato; e la disponibilità di una forza lavoro specializzata e incredibilmente qualificata, che ha tagliato e modellato a mano le pietre della facciata, creando un effetto morbido e naturale.
Se c’è una cosa che differenzia immediatamente l’edificio dal contesto, è sicuramente la grande attenzione ai dettagli che caratterizza i migliori lavori di Chipperfield. L’edificio lascia anche spazio all’umorismo: la facciata in pietra strizza furbescamente l’occhio al lussuoso centro commerciale di fronte, Antara Polanco, progettato da Javier Sordo Madaleno nel 2006, rivestito in elementi prefabbricati di calcestruzzo a imitazione del travertino, dipinti nella medesima tonalità di beige lattiginoso.
Secondo Chipperfield “una stanza senza connessione con l’esterno non è una stanza”
Dall’interno, il museo appare a dir poco stupefacente. La costruzione è così accurata che viene voglia di strofinarsi contro ogni superficie. Le finestre a tutt’altezza, le porte girevoli massicce che sfiorano il soffitto e una scala scultorea profilata in acciaio annerito, esprimono tutto il dramma, senza strafare. I pavimenti in travertino portano un calore inusuale per gli standard dei white cube.
Non c’è niente delle pretese modaiole delle gallerie contemporanee. Infatti, paragonato ai vezzi dello spazio espositivo precedente che ospitava la raccolta, aperto nel 2001 all’interno della fabbrica di succhi di frutta Jumex, nella periferia industriale di Ecatapec, il Museo Jumex appare completamente maturo.
La domanda da porsi è come un’istituzione privata possa assumere un ruolo anche più ambizioso di quelle pubbliche nel promuovere il cambiamento sociale e culturale
Il Jumex vuole essere un’infrastruttura sociale e culturale: il museo come piattaforma pubblica. Resta da vedere se questo offuscamento dei confini tra pubblico e privato, tra il popolare e l’oscuro, sarà effettivamente in grado di connettersi con un pubblico più vasto, di creare non solo una “destinazione” ma un centro di attività critica creativa intorno alla cultura contemporanea (che in realtà manca alla città) che incanali queste energie trasformandole in bene comune. Gli elementi ci sono tutti, e l’avvio è stato sicuramente buono.