Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1051, novembre 2020.
Le dimensioni del nostro mondo, fisico e immaginario, sono messe profondamente alla prova. Siamo stati costretti a considerare l’importanza delle cose a portata di mano e a riadattare l’orizzonte della nostra vita quotidiana. In questo periodo di isolamento, abbiamo avuto l’opportunità di sviluppare nuove prospettive sul nostro mondo personale e sulle nostre connessioni. È servito come pausa per considerare le qualità e i meriti della prossimità in relazione alle opportunità e alle ansie del mondo globale in cui viviamo.
Come progettisti, modifichiamo continuamente la scala delle nostre ambizioni. Siamo stati educati a immaginare possibilità al di là del nostro incarico immediato, temperando le tendenze idealistiche e adottando un approccio più strumentale alle priorità della società. Istintivamente oscilliamo tra visioni e realtà, dettagli fisici e visione d’insieme, vogliamo ispirare con azioni e risultati tangibili. Siamo addestrati ad accettare i limiti dei nostri compiti, ma a lavorare per realizzare idee più grandi attraverso strategie di sovversione e inventiva, nella speranza che creino risultati positivi inaspettati. Le dimensioni della nostra sovversione sono, tuttavia, inevitabilmente limitate ai confini fisici o programmatici della nostra soggettività. La precisione dell’idea e della realizzazione sono, ovviamente, fondamentali per il nostro lavoro. Siamo ispirati dalla considerazione del particolare, del materiale, dell’elemento viscerale ed esperienziale. Il nostro lavoro si concentra sull’interpretazione di un’attività all’interno di questi ordini di grandezza. Questo è sempre stato il mestiere dell’architettura.
Qual è, allora, il ruolo dell’architetto oggi che deve affrontare questioni di scala molto più ampia, con un impegno più complesso di rappresentazione sociale, consapevolezza ambientale e mandato politico? Solo confrontandoci con questi fattori possiamo raggiungere nuovi livelli del potenziale professionale. Dobbiamo imparare a concentrare le nostre competenze e utilizzare la capacità di mediare la scala, passando dall’esame di ciò che è tangibile ed esperienziale alle condizioni comunitarie, che implicano analisi e pianificazione proattive. La pianificazione è fondamentale nel nostro lavoro. Di per sé, un’opera architettonica non può fare molto di più che divertire e, nella migliore delle ipotesi, ispirare. Il suo potenziale diventa interessante solo quando contribuisce a un’idea più ampia dell’ambiente costruito. Per raggiungere questo obiettivo, dobbiamo ridefinire il processo decisionale e partecipativo, di modo che l’agenda prevalente non sia solo quella degli investimenti incontrollati e degli interessi acquisiti. Dobbiamo dare la priorità alle voci di coloro che si occupano dell’esperienza diretta di un progetto, di quanti sono in grado di visualizzarlo su una scala più intima o grandiosa possibile. Possiamo contribuire in questo senso celebrando esempi che incoraggiano il processo di gestione della pianificazione, che considerano l’ambiente in base alle aspettative sulla qualità della vita che esso può e deve fornire.
In questi 11 mesi, a Domus siamo stati testimoni del desiderio da parte di architetti e designer di avvicinarsi alle vere sfide della società e del loro timore di esserne stati distratti e allontanati. Attraverso le nostre “visite negli studi” abbiamo incontrato colleghi che hanno allargato la pratica architettonica. Abbiamo riscontrato il loro coinvolgimento diretto nelle problematiche sociali del contesto nelle aree più critiche del mondo “in via di sviluppo” e potremmo sperare di imparare dai loro approcci conviviali all’architettura per le nostre società ‘avanzate’, ma ugualmente divise.
Su scala più ampia, abbiamo preso atto della preoccupazione riguardo a città giunte al limite: gli effetti di un’eccessiva presenza del turismo sulla natura dei centri urbani, le ansie legate alla gentrificazione, l’impatto della cattiva amministrazione e le ambizioni di rimodellare le città attorno a idee di prossimità. Parallelamente, abbiamo discusso dei processi e delle forme in evoluzione di cui è composta l’architettura, che si tratti di idee socioculturali o di modalità costruttive (mettendo in discussione il nostro impegno a costruire in altezza). È evidente che dobbiamo sfruttare meglio le tecnologie e rivisitare il valore della saggezza ereditata non come un ritorno al passato, ma come fiducia nella continuità.
Nel suo incisivo saggio apparso sul numero di giugno (Domus 1047), Eric Klinenberg ha fatto appello al riconoscimento delle “infrastrutture sociali” e alla necessità di “aggregare la civiltà” nel nostro lavoro. Ovunque, abbiamo sentito un appello affinché il processo di pianificazione sia più inclusivo, mentre dalla Svizzera è giunto un dibattito a favore di un approccio partecipativo radicale. Ciò che emerge con maggiore urgenza è la necessità di progettare alloggi per tutti. Come ha chiarito Tomà Berlanda nel numero di maggio (Domus 1046), è nostro “dovere progettare spazi per la vita e le attività umane, ovunque esso sia”: il raggio d’azione dell’architettura deve espandersi.
Il mondo del design è ugualmente tormentato dal desiderio di avere obiettivi più sociali e i riferimenti, da William Morris a Victor Papanek, abbondano. In una delle loro numerose stimolanti riflessioni (Domus 1043), Jasper Morrison e Francesca Picchi lodano la sedia Thonet No.14 come un progetto esemplare per creare un oggetto elegante, economico e pratico. Un potente promemoria degli obiettivi e del significato di un progetto di qualità.
In ognuno di questi contributi possiamo trovare idee chiare da portare avanti: essere più vicini ai destinatari finali di un progetto, rimanere in contatto con il processo creativo, cercare ispirazione in altri campi, impegnarsi nell’idea di comunità, pensare alle risorse e fare di più con meno. Il consiglio coerente e alla base di tutto è la fondamentale necessità di riconsiderare il concetto di scala. A quale livello vengono prese le decisioni più importanti? Nell’interesse di chi vengono sviluppati i criteri? In che modo – e questa rivista l’ha chiesto tante volte in passato – costruiamo la società?
Immagine di apertura: Thomas Struth, Crossing at Old Main Street, Yamaguchi 1986. Stampa cromogenica, 66x84cm