Sei Design and Applied Arts Department Head di NABA. Quale valore attribuisci all’interdisciplinarità?
Il punto di vista interdisciplinare è una risorsa necessaria da coltivare ed è fondamentale se si persegue l’innovazione: sta infatti diventando chiaro che oggigiorno il livello di complessità delle cose è tale da rendere necessario un approccio multidisciplinare alla ricerca e interpretazione delle soluzioni. Il nostro dipartimento di Progettazione e Arti Applicate include specializzazioni come Communication, Graphic Design, Fashion Design, Media, New Technologies e Set Design, e il fatto che queste specializzazioni si trovino all’interno di un’Accademia di Belle Arti ed è un punto significativo perché riflette la rilevanza delle metodologie dell’arte contemporanea, dell’approccio personale all’interpretazione dei temi. Raccontiamo sempre che non siamo una scuola che produce seguaci, o stili, ma che lavora sulla capacità individuale di trovare nuove letture, nuove interpretazioni e relazioni tra le cose.
NABA: “Non produciamo seguaci, né stili”
Luca Poncellini, Design and Applied Arts Department Head dell’Accademia di Belle Arti milanese, ci racconta la didattica dell’istituto. Mettendo in luce il valore dell’interdisciplinarietà, le attitudini dei nuovi ventenni, e il grande potenziale di un progettista al servizio del sociale.
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- Giulia Zappa
- 16 luglio 2020
E dunque come la mettete in pratica?
Offriamo agli studenti delle possibilità di incontro su progetti extra didattici, spesso intensivi. In particolare, abbiamo introdotto con il nome di Design Marathon la modalità dell’hackathon all’interno di NABA, e la portiamo avanti coinvolgendo aziende importanti e studenti di specializzazioni diverse. È proprio in questo contesto che il progetto emerge come una forma molto più interessante rispetto alla classica analisi di mercato – noi la chiamiamo project based forecasting - di previsione del futuro. La componente interdisciplinare è determinante: mi piace pensarla come un campo vettoriale che si apre tra polarità che pensano e si muovono in maniera differente. Più c’è differenza tra noi due, più si creano spazi di progetto. Più noi due abbiamo già le stesse idee, più sarà difficile che lavorando in comune venga fuori qualcosa di nuovo.
L’approccio “learning by doing” resta alla base del metodo NABA. Un approccio che oggi rivendicano in molti. Il vostro come si distingue?
Sono abbastanza d’accordo che sia una definizione un po’ inflazionata. Nel nostro caso si tratta di trovare un giusto dosaggio tra fornire conoscenze teoriche e farle acquisire agli studenti in autonomia attraverso i loro progetti. Prima dicevo che non siamo una scuola che crea seguaci perché il nostro metodo è quello di richiedere di imparare da soli: lo chiamerei un “learning doing”. Assimilare la proattività che oramai il mondo delle professioni creative richiede permette di immaginare cose che non ci sono, di fare envisioning, di innovare.
Sei Course Leader del Biennio in Interior Design di NABA. Cosa credi che esprima questa generazione rispetto all’ambiente casa? Quali sono i temi che li seducono? Sono sensibili alle mode?
Il tema casa è estremamente interessante perché si sta arricchendo di una molteplicità di dimensioni narrative completamente nuove, ma è anche un tema complesso da trattare a scuola perché legato alla propria intimità, e dunque con aspetti scivolosi. Ovviamente in questo momento si percepisce una progressiva erosione dell’idea della casa come privacy e buen retiro. Sempre più aperta e pubblica, la casa si sta sempre più orientando verso il mondo delle relazioni virtuali e digitali oltre che quelle fisiche. Faccio però più fatica ad individuare un solo tema tra quelli che affascinano gli studenti perché oramai c’è una ricezione a 360 gradi di quello che passa su tutte le piattaforme. A livello di stile vero e proprio, c’è un eclettismo quasi preterintenzionale: il mondo offre così tanta varietà di idee, spunti, progetti che il gioco è veramente quello di capire come mescolarli. Più che la ricerca di omogeneità stilistica, quello che stiamo osservando è il lavoro sulla capacità di tenere assieme pezzi molti diversi.
Ci racconti l’iniziativa di "Pop! Abitare voce del verbo popolare” e quali sono i risultati inaspettati che il progetto ha portato con sé?
È un bellissimo progetto che ci è stato proposto da MM, le Metropolitane Milanesi, a quanto ne sappiamo non ha pari non ha eguali né in Italia né in Europa. L’idea è quella di realizzare un magazine per gli abitanti delle case popolari del Comune di Milano – stiamo parlando di 50.000 persone, la dimensione di un capoluogo di provincia – che usi la comunicazione come forma di riavvicinamento con la comunità degli inquilini. POP è un progetto 100% made in NABA che coinvolge gli studenti nel trovare personaggi significativi, raccogliere storie, organizzare progetti per gli spazi pubblici. Il contenuto migliore di questo lavoro viene poi impacchettato e stampato in 30.000 copie. È un progetto appassionante che ci ha fatto capire come le opportunità di impiego nel social design siano in crescita: proprio per questo quest’anno lanceremo un biennio in Social Design. Per far sì che certi progetti pubblici funzionino bene non c’è bisogno di burocrati, ma di progettista che non stai più seduto sull’empireo e che sappia lavorare nelle comunità.
Un altro modo di essere hands on.
Se vogliamo è un’ottima definizione. Hands on non solo con la materia fisica, ma anche con il corpo sociale.
progetto NABA a cura di C. Larcher e L. Poncellini, presentato a 999. Una collezione di domande sull’abitare, a cura di Stefano Mirti presso Triennale Milano
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progetto NABA a cura di C. Larcher e L. Poncellini, presentato a 999. Una collezione di domande sull’abitare, a cura di Stefano Mirti presso Triennale Milano