Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1049, settembre 2020.
Nella lunga (e moderatamente illustre) professione del furniture design è mai esistito un periodo di maggiore coerenza, perfezione e raffinatezza di quello del design danese prodotto tra la fine degli anni Venti e la fine degli anni Sessanta? Se ci sono molte lezioni da trarre da questo straordinario momento di avanzamento per il design, c’è anche molto da apprendere riguardo alla sua attualità.
Per quanto siano molteplici i fattori che consentirono alla società danese di allinearsi con ciò che i designer e gli artigiani scelsero di offrire loro, la presenza di un pubblico desideroso di guardare con interesse e competenza alla rivoluzione estetica che stava per compiersi è stato un requisito essenziale.
Il designer giapponese Takako Murakami, che alla fine degli anni Sessanta studiò furniture design a Copenaghen sotto la guida di Ole Wanscher (1903-1985), elenca molti altri fattori in un intrigante saggio del libro Danish Chairs (Chronicle Books, 1998) a cura di uno dei più grandi collezionisti di sedie danesi del mondo, il giapponese Noritsugu Oda.
Il primo di questi elementi d’influenza fu l’istituzione della scuola superiore popolare, sorta grazie all’autorevole pastore luterano Nikolai Grundtvig (1783-1872): convinto che tutti meritassero un’istruzione, promosse l’interesse per la cultura e l’arte, la musica e la letteratura. La prima scuola fu inaugurata nel 1844. Questi istituti, aperti a parsone di tutte le età, sono oggi circa 60. Il tempismo di questa iniziativa si dimostrò propizio, come osserva Christian Olesen nel suo volume The Danish Chair (Strandberg Publishing, 2019): nel 1851 si aprì infatti la Great Exhibition di Londra e nel 1890 quello che, in un certo senso, è il suo equivalente danese, il Museo di Arte e Design. Mentre il resto dell’Europa continentale era ossessionato dall’idea di sbarazzarsi del passato, il modello educativo danese era invece centrato sull’idea di apprendere dalla storia. In Danimarca, il processo di industrializzazione è stato più lento che negli altri Paesi europei, e nella cultura contadina protestante “mai particolarmente opulenta, la parsimonia e l’uso ottimale delle risorse materiali sono sempre stati una seconda natura, una qualità ben allineata con il minimalismo che caratterizza il Modernismo internazionale”. È un’etica del lavoro di matrice religiosa per molti versi simile a quella del movimento Shaker che, al suo apice (1820-1860), produsse mobili con molti degli attributi ammirati dai danesi e le cui radici si possono rintracciare nell’arredo popolare inglese tra metà e fine Settecento.
Parte del fascino universale del design danese può derivare dall’avere tratto ispirazione da tutte le culture ed epoche, sintetizzando i loro archetipi in modelli contemporanei di grande valore
La sedia con schienale a pioli ne è l’esempio principe. Prodotta in massa dagli Shaker, dopo qualche anno divenne un modello per molti progettisti, primo fra tutti Kaare Klint (1888-1954), considerato il padre del design danese: la sua Church Chair del 1936 rielabora elementi sia dei modelli Shaker sia degli originali esempi popolari inglesi, in particolare di alcune sedie Arts and Crafts progettate da Ernest Gimson (1864-1919) negli anni Novanta dell’Ottocento. Queste mostrano tutti gli ingredienti della scuola danese: linee pulite, buona fattura e una natura essenziale, combinate tra loro, esprimono un’aura di sobria perfezione.
Il secondo fattore d’influenza è rappresentato dalla Cooperativa degli Agricoltori istituita nel 1880, che acquistò rilevanza economica nazionale attraverso l’esportazione di attrezzature agricole in gran parte prodotte a mano. In seguito, questo legame con gli artigiani avrebbe portato a commissionare a designer il progetto di sedie da distribuire attraverso la loro rete di vendita al dettaglio, che nel 1913 contava 1.526 negozi. L’esempio migliore è la celebre People’s Chair: il modello J-39 disegnato nel 1944 da Børge Mogensen ‒ uno dei progetti di sedie meglio riusciti al mondo ‒ attiva ancora buoni volumi di vendita nelle abili mani di Fredericia, che la produce dal 2005. Con questo progetto, Mogensen ha cercato di affinare la Church Chair di Klint (e i modelli rurali mediterranei), cimentandosi in un’ulteriore semplificazione, riducendo la struttura e sostituendo le quattro doghe orizzontali dello schienale con un’unica confortevole fascia di legno. Un altro ottimo esempio, relativamente sconosciuto, è la sedia da pranzo del 1957 di Ejvind Johansson (1923). Un ulteriore fattore d’influenza fu prodotto dal Museo di Arte e Design e dalla Scuola di Arte e Artigianato istituita al suo interno, dove Klint formò gli insegnanti e promosse lo studio dei modelli storici. Entrambe le scuole insistevano sull’importanza del disegno, delle abilità artigianali e delle conoscenze storiche. L’atteggiamento di Klint verso l’insegnamento mostrava di respingere il Modernismo internazionale, popolare in Europa (portato a svalutare i modelli storici per puntare su progetti adatti all’era della macchina), favorendo lo studio di quegli archetipi che si sono evoluti nel tempo. Per formare la collezione del museo, Klint raccolse esempi in Cina, Inghilterra e in altri Paesi, facendone la base per gli studi nella scuola.
Parte del fascino universale del design danese può derivare dall’avere tratto ispirazione da tutte le culture ed epoche, sintetizzando i loro archetipi in modelli contemporanei di grande valore, testati nel tempo e resi durevoli dall’abilità degli artigiani danesi. A questi notevoli fattori, si aggiunge nel 1927 il fatto che i produttori locali di mobili diedero vita alla “Copenhagen Cabinetmakers’ Guild Exhibition”, una mostra nata per difendere la propria attività dall’invasione dei mobili tedeschi prodotti industrialmente, sempre più popolari anche per la loro convenienza economica. L’esposizione fornì l’occasione per promuovere, con il gusto del pubblico, la collaborazione con i designer e affinare la qualità dei prodotti. I risultati furono positivi: inizialmente produsse un miglioramento delle vendite sul mercato interno, per portare poi a una maggiore espansione internazionale dato che produttori-ebanisti, come Rudolph Rasmussen (1838-1904), stabilirono collaborazioni virtuose con designer come Klint, Mogens Koch (1888-1983) e, in seguito, con Børge Mogensen (1914-1972) e Poul Kjærholm (1929-1980). Il successo di questa formula trasformò i laboratori degli ebanisti in centri di produzione di arredi di eccellente fattura, che ancora oggi esprimono una qualità che molte delle icone di design più note hanno perso. Le immagini di queste pagine non sono che un’istantanea delle realizzazioni di cui abbiamo parlato, ottenuta mettendo insieme alcuni dei pezzi che ho acquistato negli ultimi anni a Copenaghen dalla casa d’aste Bruun Rasmussen.
Può sembrare strano che un designer scelga di acquistare ciò che alcuni considereranno oggetti d’antiquariato, ma il mio interesse è legato al desiderio di assorbire parte del segreto della loro longevità e di quella speciale capacità di diffondere attorno a loro una buona atmosfera in ogni casa.
Fondatore dello studio Jasper Morrison Ltd (Londra, Parigi e Tokyo), Jasper Morrison è autore di una gamma di oggetti sempre più ampia per aziende come Vitra, Cappellini, Flos, Magis, Marsotto, Emeco, Punkt, Camper e Muji. Hapubblicato diversi libri e progettato numerose mostre.
Architetta, giornalista e curatrice indipendente, Francesca Picchi vive a Milano. Tra le mostre da lei curate, "Enzo Mari. Il lavoro al centro" (Centre d'art Santa Mònica, Barcellona, 1999), "Riccardo Dalisi: la funzione del pressapoco nell'universo della precisione" (Triennale Design Museum, Milano, 20017).