Il mondo in cui viviamo non è piacevole e potrebbe peggiorare: è questa la sensazione del visitatore della 58. Biennale d’Arte di Venezia. Una biennale che parla di una società disarticolata e instabile, dove i bisogni esistenziali sono ignorati e la carenza di empatia genera disagio; dove tutto è filtrato attraverso il digitale e il discorso pubblico sembra assente, gli individui non sanno più cosa desiderare e l’idea di poter protestare rischia di perdersi.
Siamo nell’era dell’ipermodernità, della post-verità, dell’intelligenza artificiale e della diffusione digitale di fake news e “fatti alternativi”; l’ambiguità domina sovrana ed è un’ambiguità che compare sin dal titolo scelto dal curatore della mostra Ralph Rugoff, “May You Live in Interesting Times”. La frase pare essere stata citata a più riprese da autorevoli oratori, a partire dall’inizio del Novecento, come antico anatema cinese; ma in realtà non esiste conferma di questa sua origine. Questa storia suona molto attuale.
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La mostra curata da Ralph Rugoff. 58. Esposizione Internazionale d’Arte alla Biennale di Venezia, “May You Live in Interesting Times”
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La mostra curata da Ralph Rugoff. 58. Esposizione Internazionale d’Arte alla Biennale di Venezia, “May You Live in Interesting Times”
Come in passato, anche in questa edizione la mostra centrale della Biennale si sviluppa lungo i 300 metri delle Corderie dell’Arsenale e nel Padiglione Centrale ai Giardini. Il numero di artisti invitati – 79 – è leggermente inferiore a quello delle edizioni precedenti, ma il curatore Ralph Rugoff ha scelto di rafforzare la loro presenza esponendo opere di ciascuno in entrambe le sedi.
L’abbrivio all’Arsenale è già una dichiarazione: compare per primo il grande dipinto Double Elvis di George Condo, dove Elvis sta per Elvis Presley e il riferimento è ai doppi ritratti serigrafati che gli dedicò Andy Warhol. Ma del glamour di allora qui non è rimasto nulla: il re del rock è presentato come esponente di un’umanità beona e abbrutita. Il grottesco, il triviale e il paradossale saranno tra gli elementi ricorrenti della mostra.
Segue, con repentino cambio di tono, una serie di emozionanti ritratti fotografici realizzati da Soham Gupta a Calcutta, di notte, tra gli abitanti più vulnerabili della città. Sono rovine contemporanee di città anche gli angoli derelitti di Roma che troviamo poco più in là, nelle fotografie di Anthony Hernandez.
Quindi, appare il video 48 War Movies di Christian Marclay: 48 film di guerra, stratificati l’uno sull’altro con andamento concentrico, diventano illeggibili e generano un senso di allontanamento; la cacofonia generata dalla sovrapposizione delle colonne sonore contribuisce all’effetto disorientante. Anche in altri momenti della mostra una serie di elementi sonori finisce per costituire un rumore di fondo.
Di lì a poco comparirà il viso livido di un uomo che piange a dirotto, e si alterna a quello di un lattante, anch’esso inondato di lacrime; come a dire che il dolore di vivere si accompagna alla nascita stessa; è Ed Atkins, che sembra affermare che il futuro è morto, così come la speranza; il piacere di crescere e di diventare se stessi ha lasciato posto alla disperazione. Man mano che avanziamo sia all’Arsenale sia nella sezione dei Giardini, è sempre più chiaro come il concetto di libertà si stia svuotando di contenuti o venga oscurato con la violenza; mentre i soggetti cadono prigionieri del disagio, dell’angoscia, dell’aggressività o della depressione.
Si tratta di un circolo vizioso da cui è difficile uscire, le cui conseguenza ritroviamo nell’aggressività, tanto più ingovernabile in quanto assurda, delle scene di strada della pittrice uruguayana Jill Mulleady; o nei paesaggi vitali e coloratissimi, ma abitati da figure violente, dipinti da Michael Armitage. Teresa Margolles, destinataria di una menzione speciale, porta nello spazio espositivo pannelli per le affissioni di Ciudad Juàrez, con incollate fotocopie con volti di donne scomparse: una testimonianza diretta e dirompente degli effetti della narcoviolenza e della violenza di genere per la quale la città è nota.
Henry Taylor dedica una serie di quadri alla realtà afroamericana e alle sue durezze; e su questo tema vertono molte altre opere, compresi i video e le installazioni di Arthur Jafa, a cui è andato il Leone d’Oro per il miglior partecipante alla Mostra Internazionale; e il video BLKNWS di Kahlil Joseph, per esempio, consistente in un flusso ininterrotto di immagini di vita dei neri americani, tratte film amatoriali, meme digitali, Instagram, YouTube, spezzoni di TG, tutti fortemente rieditati; un ready made che evidenzia una questione aperta, ma dice anche che qualsiasi cosa può essere notizia.
Le fake news, una realtà a tutti gli effetti virtuale se non per le dolorose ricadute che produce, il filtro digitale che genera incomunicabilità piuttosto che comunicazione sono senz’altro tra i maggiori fili conduttori della mostra; nella quale, in effetti, il linguaggio generato dal computer domina decisamente, con esiti spesso straordinariamente efficaci.
Come nel caso dei film di Jon Rafman, che crea storie avvincenti ambientate in un universo post apocalittico, con un linguaggio ricco di riferimenti al passato, da Bosch al surrealismo. L’avanti e indietro nel tempo e l’attraversamento di culture è del resto una caratteristica dell’arte di oggi; basti vedere il video e le straordinarie sculture di Cameron Jamie, che evocano la cultura tribale mentre si riferiscono a una tradizione tuttora vigente, legata alla festività natalizie, di un paesino alpino austriaco.
Lo statunitense Darren Bader crea un’agenzia viaggi fittizia che organizza tour alternativi di Venezia; il cinese Nabuqu espone un cartellone con palme e spiaggia tropicale che pubblicizza una vacanza paradisiaca, ma è interamente realizzato con Photoshop. L’approccio ironico nulla toglie alla serietà della questione, anzi; l’impressione è quella di vivere in un mondo completamente distopico.
Ma si può ancora pensare di poter resistere. Questa è la sfida posta dal curatore.
Basta lasciarsi avvolgere dall’installazione ambientale di Shilpa Gupta For, in your toungue, I cannot fit: 100
microfoni che fungono da altoparlanti, distribuiti nella penombra di
un’ampia sala, diffondono brani di altrettanti poeti incarcerati per le
loro opinioni e posizioni dal VII secolo a oggi. I testi, in lingua
originale, compongono un paesaggio sonoro avvolgente; e raccontano che
se la realtà è informe e l’umanità inferma, l’uomo non ha mai smesso di
credere e di lottare.
Disseminate ovunque campeggiano anche le gigantografie in bianco e nero di Zanele Muholi, fotografa e attivista visiva che da tempo combatte una battaglia a favore delle donne lesbiche di colore del Sudafrica. Muholi cerca lo sguardo dello spettatore presentandosi direttamente, con forza e con aria di sfida; la sua decisione di rompere con l’invisibilità e con il silenzio imposto è inequivocabile. All’immissione di odio sociale, razziale e di genere, all’apparente sgretolarsi di ogni potenzialità è ancora possibile opporsi. La presenza pervasiva delle sue fotografie nella mostra è un messaggio potente e propositivo che Ralph Rugoff ha voluto lanciare.
Immagine di apertura: “May You Live in Interesting Times", 58. Esposizione Internazionale d’Arte alla Biennale di Venezia. Foto Giulia Di Lenarda
- Mostra:
- “May you live in interesting times"
- Curatore:
- Ralph Rugoff
- Evento:
- 58. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia