Cielo Alto a Cervinia, Rozzol Melara a Trieste, Gallaratese a Milano, Forte Quezzi a Genova, Barca a Bologna, Villaggio Matteotti a Terni, Nuovo Corviale a Roma, Le Vele a Scampia, Spine Bianche a Matera, ZEN a Palermo: un nugolo di progetti che tratteggia un immaginario diffuso, solitamente in bilico tra utopie e politiche, tutele e abbandoni, grandi numeri e unità minime.
Le fotografie di Fabio Mantovani si collocano come delle sonde precise nel tempo e nello spazio: ogni immagine è contraddistinta da una coordinata che la posiziona con esattezza in un dato luogo di un dato giorno a un dato minuto. Come afferma Nicholas Mirzoeff nel suo Visual Culture “Il ‘click’ dello scatto cattura un istante del tempo che diventa immediatamente passato, ma che è, tuttavia, la cosa più vicina alla conoscenza del presente”. La sequenza quindi non ha un andamento narrativo, ma si allarga in una serie di vedute simultanee, orizzontali, che godono di quella nitidezza che la sospensione di giudizio nella composizione di un quadro generale sul tema sa conferire. Senza nostalgia, senza denuncia, ma con tutta la potenza che hanno i documenti, queste immagini parlano di quel momento in cui architetti e urbanisti hanno desiderato dare indicazioni su come abitare, come camminare, come condividere gli spazi, e sulle modalità con le quali poi le persone hanno sovrapposto a questi disegni, modificandoli, le proprie storie, abitudini, necessità.
Dai primi progetti ottocenteschi di Charles Fourier e Jean Baptiste Godin, fino alle citazioni del mito lecorbusieriano, suggestioni dalla cultura architettonica sul tema e da letture parallele come l’High-Rise di James G. Ballard o La vie mode d’emploi di George Perec, si affastellano nelle profondità delle immagini, ma quello che poi ne riemergere sono fotografie che dialogano con il presente, il cui spirito descrittivo non è da intendersi come una volontà di distanziarsi asetticamente dal tema, ma testimone di quanto la sola scelta di inquadrarne l’argomento, comporti di per sé una presa di posizione.
In Cento case popolari riemergono l’antico ruolo dell’architettura come unità di misura del territorio e dell’uomo come unità di misura dell’architettura. Entrambi sono spesso ripresi da un punto di vista più alto del consueto, che porta lo sguardo a volare sugli oggetti, evidenziandone le logiche che li sostengono. Ampie vedute si alternano tra le pagine a inquadrature ravvicinate, rapite da un dettaglio che la fotografia raccoglie come l’indizio di una storia più lunga e articolata. Le linee delle architetture sono convogliate nelle fotografie di Mantovani su prospettive inusuali, che riescono a interpretare paesaggi di scale diverse senza lasciarsi coinvolgere da dimensioni e situazioni spaziali difficili da addomesticare, ma lasciandone trasparire una lettura architettonica pulita e senza distorsioni.