Leggenda privata è un’autobiografia richiesta, o meglio imposta, da un’immaginaria Accademia dei Ciechi, ambientata nello scenario gotico e inquietante della sua infanzia. Il racconto comincia nella casa dei nonni, a Nasca, sulla sponda lombarda del Lago Maggiore, dove l’autore ha trascorso le sue estati e dov’è nata la vocazione per la scrittura, ed è circoscritto all’arco temporale della prima giovinezza. Mari scrive infatti di un sé “pre-scrittore” e della sua famiglia: i nonni e la trattoria di Nasca, le insicurezze e il rifugio nei libri. Ma il vero protagonista del racconto è il rapporto con i genitori: Enzo Mari, icona del design italiano, e la disegnatrice Gabriela Ferrario, al secolo Iela Mari.
I ‘mostri’ dell’Accademia criticano, approvano ed entrano nella genesi del racconto come se ne sapessero più dell’autore stesso, lo incalzano a produrre materiale autobiografico più profondo. Mari non risparmia i dettagli, procede impietoso nel raccontare di un padre “al confine tra Mosè e John Huston”, e di una madre descritta come “la persona più triste e devastata che abbia conosciuto”.
Uno degli episodi topici del romanzo è la descrizione del momento in cui Michele comunica al padre di non voler percorrere la sua carriera, “Sinuosa, lunga, gloriosa”. Mari senior risponde con una serie di brevi e taglienti demolizioni – “Lettere!?”, “Ossignur” (scuotendo la testa) – e liquida il desiderio del figlio di diventare scrittore definendolo un “frin-frin”: termine, specifica l’autore in una “auto-nota”, utilizzato da Enzo Mari per definire tutto ciò che è inconcludente e non meritevole di attenzione. “L’ottanta per cento del design a lui contemporaneo era un frin-frin, non oso immaginare cosa direbbe oggi del Salone del Mobile!”, aggiunge.
Michele è però incoraggiato dal nonno paterno, l’eroe del libro. Un nonno di origini umili che ardeva di riscatto, che a Milano aveva aperto un negozio e aveva iscritto il figlio alla Scuola tipografica del Castello Sforzesco solo a patto che vincesse l’unica borsa di studio (una per 500 iscritti); e che anche per il nipote desiderava invece un futuro solido, questa volta in ambito letterario.
La letteratura diventa quindi ossessione, un modo per vivere una vita parallela e staccarsi da quella reale. Nella volontà di estraniazione Mari individua un parallelismo tra il carattere paterno e il proprio, pur prendendone le distanze: “Mio padre, a modo suo, a galassie di distanza dal mio modo di condurre la vita, ha fatto lo stesso. Era completamente assorbito nei suoi progetti, stava dieci ore al giorno con la testa china, senza mangiare né andare al bagno. Era un modo per tacitare il mondo”.
Nei pomeriggi trascorsi da Danese, Michele apprende molto sull’arte del progettare, osservando i modellini di pongo e fil di ferro prendere forma. Tuttavia, l’autore si definisce “anti-progettuale”; la sua scrittura nasce talvolta attorno a una parola o a una suggestione, talvolta proprio a partire da un’idea di titolo “che è puro suono”. “D’altronde, ho visto che fine hanno fatto mio zio (Elio Mari, grafico e collaboratore di Enzo Mari per vent’anni e poi allontanatosi dal fratello,) e mia mamma e ho capito che dovevo procedere diversamente!”.
Il tema del rapporto con il padre emerge violentemente, pagina dopo pagina. Michele Mari lo definisce un rapporto laconico, reticente, bloccato, imputabile anche (ma non solo) alla generazione del genitore, che considerava ogni frivolezza indegna di un uomo, “lontana dal concettò di virilità che anima, ad esempio, i film di John Ford”. “Lo scambio di umanità era sempre nell’esperienza del non detto”.
“La casa di mio padre era cosparsa di libri di design, che guardavo con interesse. Non mi sono mai allontanato dal design, l’ho sempre respirato; ma non l’ho mai vissuto da attore”. Incontrato la scorsa settimana alla Libreria indipendente Verso di Milano, Michele Mari ha parlato con Serena Scarpello del suo nuovo libro, pubblicato da Einaudi.