Leggenda privata è un’autobiografia richiesta, o meglio imposta, da un’immaginaria Accademia dei Ciechi, ambientata nello scenario gotico e inquietante della sua infanzia. Il racconto comincia nella casa dei nonni, a Nasca, sulla sponda lombarda del Lago Maggiore, dove l’autore ha trascorso le sue estati e dov’è nata la vocazione per la scrittura, ed è circoscritto all’arco temporale della prima giovinezza. Mari scrive infatti di un sé “pre-scrittore” e della sua famiglia: i nonni e la trattoria di Nasca, le insicurezze e il rifugio nei libri. Ma il vero protagonista del racconto è il rapporto con i genitori: Enzo Mari, icona del design italiano, e la disegnatrice Gabriela Ferrario, al secolo Iela Mari. I ‘mostri’ dell’Accademia criticano, approvano ed entrano nella genesi del racconto come se ne sapessero più dell’autore stesso, lo incalzano a produrre materiale autobiografico più profondo. Mari non risparmia i dettagli, procede impietoso nel raccontare di un padre “al confine tra Mosè e John Huston”, e di una madre descritta come “la persona più triste e devastata che abbia conosciuto”.
Michele Mari racconta il padre e designer Enzo Mari
In “Leggenda privata”, autobiografia di Michele Mari, lo scrittore racconta il rapporto col padre Enzo Mari, designer “al confine tra Mosè e John Huston”.
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- Cristina Moro
- 28 aprile 2017
- Milano
Uno degli episodi topici del romanzo è la descrizione del momento in cui Michele comunica al padre di non voler percorrere la sua carriera, “Sinuosa, lunga, gloriosa”. Mari senior risponde con una serie di brevi e taglienti demolizioni – “Lettere!?”, “Ossignur” (scuotendo la testa) – e liquida il desiderio del figlio di diventare scrittore definendolo un “frin-frin”: termine, specifica l’autore in una “auto-nota”, utilizzato da Enzo Mari per definire tutto ciò che è inconcludente e non meritevole di attenzione. “L’ottanta per cento del design a lui contemporaneo era un frin-frin, non oso immaginare cosa direbbe oggi del Salone del Mobile!”, aggiunge. Michele è però incoraggiato dal nonno paterno, l’eroe del libro. Un nonno di origini umili che ardeva di riscatto, che a Milano aveva aperto un negozio e aveva iscritto il figlio alla Scuola tipografica del Castello Sforzesco solo a patto che vincesse l’unica borsa di studio (una per 500 iscritti); e che anche per il nipote desiderava invece un futuro solido, questa volta in ambito letterario. La letteratura diventa quindi ossessione, un modo per vivere una vita parallela e staccarsi da quella reale. Nella volontà di estraniazione Mari individua un parallelismo tra il carattere paterno e il proprio, pur prendendone le distanze: “Mio padre, a modo suo, a galassie di distanza dal mio modo di condurre la vita, ha fatto lo stesso. Era completamente assorbito nei suoi progetti, stava dieci ore al giorno con la testa china, senza mangiare né andare al bagno. Era un modo per tacitare il mondo”.
Cos’è rimasto di quel girovagare nei magazzini di un laboratorio progettuale come Danese? “Un piacevolissimo ricordo”, spiega Mari, “osservavo in disparte Bruno Danese, mio padre e Bruno Munari parlare, litigare, progettare, e andare avanti per ore, anche sino alle dieci di sera. Assieme a mia sorella, feci anche da cavia per i libri e i giochi che nostro padre progettava”. Danese era un laboratorio d’idee, dove Munari e Mari possono mettere in atto le loro riflessioni sull’approccio pedagogico conoscitivo dei giocattoli.
Testava davvero quei libri e quei giochi in legno che sono passati alla storia? Michele cerca velocemente in un libretto e mostra con un certo orgoglio la fotografia del prototipo dei 16 animali di legno che Enzo Mari elabora nel 1957, prodotti poi da Danese nel 1959 e oggi esposti nel musei di tutto il mondo. “Ci giocavo e rigiocavo, li ho consumati, vede?” La collaborazione tra Enzo e Iela Mari ha poi dato origine ad alcuni lavori per bambini. Michele e la sorella sono infatti anche i primi fruitori di La mela e la farfalla – Albo silenzioso narrativo (1960) e L’uovo e la gallina (1969), piccoli libri senza testo illustrati da Iela Mari, dalla grafica semplice e immediata. “Ma guai a chiamarla arte! Per mio padre la parola arte era pornografia! Non era nemmeno architetto, anche la parola design era frivola (“frin-frin”). Diventava persino impacciato nel definirsi, ‘sono uno che disegna le cose’”.
Nei pomeriggi trascorsi da Danese, Michele apprende molto sull’arte del progettare, osservando i modellini di pongo e fil di ferro prendere forma. Tuttavia, l’autore si definisce “anti-progettuale”; la sua scrittura nasce talvolta attorno a una parola o a una suggestione, talvolta proprio a partire da un’idea di titolo “che è puro suono”. “D’altronde, ho visto che fine hanno fatto mio zio (Elio Mari, grafico e collaboratore di Enzo Mari per vent’anni e poi allontanatosi dal fratello,) e mia mamma e ho capito che dovevo procedere diversamente!”. Il tema del rapporto con il padre emerge violentemente, pagina dopo pagina. Michele Mari lo definisce un rapporto laconico, reticente, bloccato, imputabile anche (ma non solo) alla generazione del genitore, che considerava ogni frivolezza indegna di un uomo, “lontana dal concettò di virilità che anima, ad esempio, i film di John Ford”. “Lo scambio di umanità era sempre nell’esperienza del non detto”.
Leggenda privata affronta anche gli anni successivi alla separazione dei genitori, quando la vita si divideva su due sponde completamente opposte: la casa della madre, di cui racconta la devastante tristezza, i pasti a base di pancotto; e la casa del padre, dove si mangiava pasta all’amatriciana e s’incontravano personaggi come Ettore Sottsass e Achille Castiglioni, dove Walt Disney era “l’oltraggio supremo” e i fumetti si potevano leggere solo se pubblicati su Linus. “Mio padre era un caterpillar, anche per questo l’ho ammirato. E di questo sono stato complice. Mi son difeso, arroccato, ammutito, ma non sono mai riuscito a rinnegarlo. Mi sono anche sorpreso ad applicare i suoi parametri”.
Il volume gode anche di un apparato iconografico selezionato dall’autore. Una trentina di fotografie in bianco e nero intervalla i paragrafi dando una fisionomia ai protagonisti del racconto; un’immagine efficace (che è anche quella di copertina) riassume il difficile rapporto tra i genitori: “Se la madre non lo difendeva, si formava talvolta nella mente del figlio il delirante conato di difenderla lui, come si evince da una fotografia scattata dal padre: autentico scudo umano, il figlio si frappone con uno sguardo che dice: dovrai passare sul mio cadavere”. Seguono poi fotografie di Michele bambino, della madre in montagna in compagnia di Dino Buzzati, delle statuette “dal sedere basso” scolpite dal nonno paterno e immagini scattate nello spazio espositivo di Danese, dove Michele passava lunghi pomeriggi ad assistere al lavoro del padre e dove, scrive, “Toccavo con mano le origini del design Italiano”.
Sono bellissime le fotografie dei disegni-puzzle che Michele realizza nel Natale del 1969: la madre, inespressiva e impassibile mentre con una mano cucina e con l’altra impugna una matita; sullo scaffale, matite, penne e uno dei foluard disegnati per Fiorio. Enzo Mari è invece imperioso, una sorta di “Mangiafuoco” con il pennello in mano che “sta per mettersi a disegnare”, ritratto innanzi a una parete del suo studio; sulle mensole, i celebri disegni L’Oca e La Mela realizzati per Danese, una serie di libri editi da Boringhieri e gli oggetti che hanno fatto la storia del design.
“La casa di mio padre era cosparsa di libri di design, che guardavo con interesse. Non mi sono mai allontanato dal design, l’ho sempre respirato; ma non l’ho mai vissuto da attore”. Incontrato la scorsa settimana alla Libreria indipendente Verso di Milano, Michele Mari ha parlato con Serena Scarpello del suo nuovo libro, pubblicato da Einaudi.
Michele Mari, Leggenda privata, Einaudi, Torino 2017, pp. 174.
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