Immagino Sandro Mendini che legge l’ennesima recensione su Codice Mendini, uscito a maggio per Electa grazie alla ricerca coraggiosa, dedita, precisa di Fulvio Irace, che trent’anni fa da Napoli approdava a Milano chiamato dallo stesso Mendini per lavorare con lui al progetto della rivista Domus. Lo vedo oscillare tra il senso di colpa di chi si sente troppo, stimato, studiato, lodato rispetto a una professione mista che, tutto sommato, ha sempre praticato per amore e vocazione, e lo sghignazzo irriverente e un po’ sadico del ladruncolo che pensa “tanto non mi prenderete mai”. E non è un caso, credo, che mentre a maggio usciva questo libro colossale, il più voluminoso mai scritto sul suo conto (368 pagine, 55 illustrazioni, 50 anni di lavoro) con una copertina che “sembra una riproduzione in piccolo dell’EUR”, insieme Postmedia Books pubblicasse i suoi Scritti di domenica, un brulicare di riflessioni, lettere, messaggi, piccoli testi, interviste, incursioni che ruotano intorno a un perno di scrittura rigorosa, limata, nelle pieghe della quale si possono leggere alcune delle righe più interessanti prodotte dalla letteratura del design degli ultimi cento anni.
Sandro è tra i maestri – forse insieme a Ettore Sottsass, anche se in maniera profondamente distante – la penna migliore. È un comunicatore, prima ancora che un designer o un architetto. Eppure Mendini, credo di averlo già detto, non si può davvero e fino in fondo capire. Perché gli si farebbe un torto. È innegabilmente uno degli ultimi grandi maestri del design italiano, figura con la quale non ci si può non confrontare. Ma non si può studiare Mendini: non ha allievi, non ha quasi mai nemmeno insegnato, “non credo di avere dei messaggi da trasmettere unilateralmente”, come se non fosse un racconto foriero d’insegnamenti ogni suo tremolante segno impresso sulla carta o sul progetto. Eppure, con questo libro, si può studiare il design attraverso Mendini, magnificamente. È una persona che rimane in testa a chi ha avuto la fortuna di incrociarlo con una traccia di mitezza, educazione, galanteria che vanno citati perché doti genetiche coltivate ad arte. Eppure è uno dei più caustici, radicali, pungenti e sintetici osservatori delle debolezze umane e professionali rispetto alle quali ha sempre trovato un modo elegante di schierarsi coi guanti o prendere sobriamente le distanze. “Non un maestro, dai, se mai un maestrino”: così si salvano insieme la venerazione subita seppure schernita e quella stronzaggine, per sua stessa ammissione, un po’ tipica della vecchia borghesia milanese a cui appartiene, e che non trova nessun omologo oggi nei paraggi italiani. “Bisogna arrivare forse in Corea, dove mi fanno fare le cose che qui in Italia non mi chiede più nessuno e ho trovato un tipo di borghesia simile a quella da cui provengo, solo forse più ingenua e contadina” e dove, immagino, forse un giorno Alessandro Mendini sarà eletto eroe nazionale, potendo praticare indisturbato le sue inarrivabili utopie.
Come dire: quando ci sembra di avvicinarci a un Mendini, immediatamente ne fa capolino un altro, quasi sempre a sdrammatizzare o rimescolare le definizioni, con quella modestia ironica e un po’ snob che si può permettere solo chi ha imparato come si cammina su tutte le superfici, senza venirne risucchiato.