Youssef Tohme, Intensive Beyrouth, Norma Éditions, Paris 2014, € 25 (edizione bilingue francese/inglese).
Intensive Beyrouth
Il libro che Youssef Tohme, architetto quarantenne con studio a Beirut e Parigi, dedica a Beirut è una densa e difficile dichiarazione d’amore per la propria martoriata città.
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- Manuel Orazi
- 10 luglio 2015
Se si atterra a Beirut per la prima volta e si è seduti nel lato dell’aereo parallelo al mare, è impossibile vedere la città e orientarsi, un po’ come a Genova. Ed è a Genova e alla Liguria che un italiano pensa subito come termine di paragone per la capitale del Libano, il Paese abitato da tempo immemore da popolazioni di mercanti e schiacciato fra le montagne e un mare subito profondo come il Tirreno. La descrizione che Fernand Braudel ne fece resta tuttora valida: “La Fenicia è una ghirlanda di piccoli porti addossati alla montagna, situati su penisole e piccole isole, come se volessero mantenersi estranei a un continente troppo ostile” [1].
Tiro, Sidone, Beirut, Biblo – ovvero l’antica Gibello, per due secoli enclave genovese della famiglia Embriaci, oggi patrimonio UNESCO – o, ancora Tripoli, la città della principessa Melisenda cantata da Jaufré Rudel e Giosuè Carducci: se la ghirlanda di città fenice ha sofferto le pressioni provenienti dall’interno da parte degli Assiri, il Libano contemporaneo vive un periodo di paradossale calma dopo anni d’instabilità costante dovute alle ingerenze della Siria degli Hassad, ora interrotte solo dalla guerra civile interna e dall’attenzione regionale verso oriente e l’Isis. Paradossalmente, la presenza di oltre un milione di profughi siriani sul territorio libanese, a fronte di poco più di quattro milioni di abitanti, fra tutti i problemi del caso, ha finito per agevolare l’edilizia perché è proprio tra i profughi che si ottiene manodopera a basso costo. Ed è anche così che si spiegano i recenti exploit di architetti come Bernard Khoury, Nabil Gholam o Räed Abillama, sullo sfondo di un paesaggio urbano costellato di torri, in costruzione o sulla carta, molte delle quali a firma di grandi studi europei.
Beirut è però una città indecifrabile a prima vista perché è al contempo internazionale, paradiso fiscale arabo dove le principali banche sono svizzere e dove sfrecciano auto di lusso sotto grandi cartelloni pubblicitari di superalcolici demodé nei vivaci quartieri maroniti a rischio gentrificazione come Gemmayzeh, lungo la ex linea verde, ma anche città eminentemente meridionale. E, infatti, per decenni in Europa “credevano davvero che Beirut fosse ‘la piccola Parigi’ perché offriva l’esotismo e l’avventura dell’Oriente, ma con il comfort delle lingue e dei costumi occidentali, delle banche, dell’università, e la natura del giardino dell’Eden”, ma al contempo dove si capisce bene che cosa è il Sud, “il sole eterno, la lunga spiaggia, i giardini fertili e il suolo arido, la costa spietata con le sue cale e le sue grotte, i mendicanti logori, gli odori forti, i monelli laceri, i cani per strada, popoli che gesticolano e gridano, uccidono e invocano la grandezza di Dio o si fanno il segno della croce davanti alle Madonne negli incroci. È il diavolo che si nasconde nella bellezza della natura” [2]. Si tratta, insomma, delle due facce riunite dall’ultima edizione del libro di Gabriele Basilico su Beirut, contrapponendo le rovine della città appena uscita dalla guerra civile del 1975–1990 ai nuovi edifici della ricostruzione completata già non molti anni dopo. [3]
In ogni caso, tutte le letture occidentali di Beirut rischiano di essere viziate dal mito dell’Orientalismo di Edward Said, e dobbiamo dunque essere grati a Youssef Tohme, architetto quarantenne con studio a Beirut e Parigi, di aver dedicato un libro alla sua città, Intensive Beyrouth, perché non è solo un volume promozionale che elenca con grazia alcuni progetti realizzati o in cantiere, ma una densa e difficile dichiarazione d’amore per la propria martoriata città. Per di più, si tratta di un libro corale dunque senza smanie di protagonismo, che chiama a raccolta le voci più affini di artisti, grafici, cineasti, architetti e filosofi protagonisti della rinascita perennemente precaria del Libano, spesso combattuti fra il ritorno in patria e la deriva verso la grande diaspora libanese, cominciata nell’Ottocento verso Brasile, Stati Uniti, Canada, Francia e altri paesi sudamericani. Chi ha visto il film canadese Incendies (2010) di Denis Villeneuve, tratto dall’omonima opera teatrale di Wajdi Mouawad, libanese trasferitosi a Montreal, conosce bene questo intreccio planetario.
In particolare però Tohme si distingue per la sua introversione: impossibile ottenere da lui, per esempio, i propri riferimenti letterari o architettonici. Chiamare a raccolta altri interlocutori come il giornalista Hazem Saghieh, l’artista Ziad Abillama o il filosofo Chris Younès è un modo per nascondersi, un prodotto della sua timidezza. Eppure Tohme, direttore della Biennale di Bordeaux del 2014, è l’autore di almeno tre progetti estremamente maturi e realizzati con una mano sicura in cemento armato ma con effetti radicalmente differenti: partendo dalla Villa T costruita come una promenade architecturale sulla collina per un banchiere a nord di Beirut, la Villa SC a strapiombo sulle montagne di Akoura o il fortilizio provvisto di piscina sul tetto del nuovo campus dell’Università Saint-Joseph fondata dai gesuiti francesi nel pieno centro della città. Tuttavia dobbiamo ringraziare Karine Dana per essere riuscita a far uscire Tohme allo scoperto grazie a un paziente scavo psicologico: essendo uno che parla poco e che soprattutto non ama parlare di sé – nel libro usa infatti sempre il plurale come se parlasse sempre a nome dei suoi associati Roger Akoury e Anastasia Elrouss. Nella conversazione che apre il libro, Structuring the horizon, Dana è riuscita a fargli scoprire alcune carte: Tohme afferma infatti di amare Beirut per i suoi spazi tesi e sereni, per le sue identità indecifrabili, ma la paragona a una figura di Giacometti, L’Homme qui marche: nervosa, pallida, malata eppure ancora in cammino. Dice di essere molto attaccato all’idea di contesto e, al contempo o forse proprio per questo, spaventato dalle immagini. Di lavorare molto su ciò che “esiste tra le cose” vale a dire sulla natura più profonda dei luoghi e più difficile da catturare ciò che l’architetto libanese chiama “ambiance”: uno stato di cose sprovvisto di un’immagine precostituita. Per questo, si avvicina ai luoghi in cui deve lavorare, dapprima, in modo irrazionale ed empatico e, solo dopo, cercandone un significato; di amare lavorare con il vuoto – perché evita alla radice il problema dell’immagine –, ma anche con l’orizzonte e l’ambiance di un luogo, “perché non voglio lavorare sulla guerra. Le situazioni che hanno a che fare con il non-detto sono sempre molto commoventi. Il non-detto permette di lasciar spazio ai sogni, di lasciar posto al silenzio affinché si riveli qualcos’altro. Un vuoto di un’intensità molto forte. Forse la guerra è un non detto nel nostro lavoro. Preferiamo invocare la costruzione piuttosto che la guerra. Fare architettura in Libano è il nostro modo di prendere posizione”.
Esistono due tipi di persone che parlano poco: quelli che non hanno niente da dire e quelli che al contrario tacciono per la vastità di cose da dire. Youssef Tohme appartiene senz’altro a questa seconda categoria, quella del “silenzio pieno” di alcuni uomini mediterranei come i siciliani Sciascia o Gesualdo Bufalino, per cui “la parola è una chiave, ma il silenzio è un grimaldello”.
Note:
1. La Méditerranée, sous la direction de Fernand Braudel, Arts et métiers graphiques, Paris 1977-1978.
2. Francesco Merlo, Stanza 707, Bompiani, Milano 2014.
3. Gabriele Basilico, Beirut 1991 (2003), Baldini Castoldi Dalai, Milano 2003/Le Point du Jour, Paris 2004.
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