Peter Eisenman, Inside Out, Scritti 1963-1988, Quodlibet, 2014
Eisenman, finalmente
A 10 anni dall’edizione americana, esce in italiano per i tipi di Quodlibet Inside Out di Peter Eisenman: una raccolta di saggi scritti tra il 1963 e il 1988, il periodo forse più intenso della definizione del pensiero e delle tattiche progettuali dell’architetto, scrittore ed educatore.
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- Sabrina Puddu
- 25 luglio 2014
A distanza di dieci anni da Giuseppe Terragni: trasformazioni, scomposizioni, critiche, Quodlibet ripropone al pubblico italiano Peter Eisenman traducendo Inside Out (traduzione di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini, postfazione di Roberto Damiani).
In copertina, l’immagine ormai iconica dell’assonometria a colori di House VI, mentre la sovrapposizione del ritratto fotografico di un Eisenman ottantenne sui diagrammi trasformazionali di House II nella quarta di copertina è contemporaneamente indice della longevità e della modernità di quelle prime sperimentazioni formali che sopravvivono al tempo, e anzi tornano di moda. In una intervista sull’ultimo numero di Log, interrogata sulla scelta di soffermarsi sulla linea genealogica Wittkower – Rowe-Eisenman nei propri corsi accademici su “Formalisms”, Sarah Whiting, nota come ancora quel discorso sulla forma sviluppatosi negli anni ‘60 non sia davvero conoscenza assimilata e comune.
Pubblicato nel 2004 per Yale University Press, Inside Out raccoglie una selezione di saggi scritti tra il 1963 e il 1988, probabilmente il periodo più intenso della definizione del pensiero e delle tattiche progettuali di Peter Eisenman – architetto, scrittore ed educatore. È il periodo che segue la discussione della tesi di dottorato a Cambridge e condensa l’attività allo IAUS di New York, la fondazione di Oppositions e la costruzione delle prime case, includendo gli accordi e disaccordi con il mentore Colin Rowe, l’incontro con gli italiani Rossi e Tafuri e le prime letture di Derrida.
Ciascun saggio ha certo una propria carica singolare e un preciso contesto di esistenza, ma non è solo la rilevanza dei singoli saggi a fare di Inside Out un “must” da tenere nei propri scaffali. Più che contenere saggi, il libro li seleziona come se fossero i capitoli di un volume coerente nel suo scorrere, indipendentemente dalla loro precedente collocazione editoriale. Come spiega Roberto Damiani nella postfazione all’edizione italiana, Eisenman non ha scritto un libro con lo scopo di stabilire una teoria della forma a priori. Tuttavia, in Inside Out, saggi teorici, descrizioni di progetti e processi progettuali propri e altrui, critiche alla condizione architettonica passata e contemporanea, riflessioni o introduzioni agli scritti di architetti colleghi, eventi accidentali e non, si riassettano a posteriori come parti sequenziali di una storia fondamentale dell’architettura della seconda metà del Novecento. Ovvero, potete decidere di leggere i saggi pensando che vi apriranno le porte per la comprensione di edifici come il Leicester University Engineering Building di Stirling e le 7 Texas Houses di Hejduk, di personaggi come Philip Johnson o di testi come l’Architettura della Città. Oppure (o anche) leggerli come soglia al pensiero e all’opera di Peter Eisenman.
Quindi, superata l’introduzione (quella sì, del 2004), il consiglio è di leggere Inside Out tutto d’un fiato, in sequenza. A partire dalla triade iniziale dei capitoli su struttura formale, sintassi concettuale e diagrammi trasformazionali si afferrerà il passaggio – governato dal ritorno continuo delle coppie Rowe-Le Corbusier e Eisenman-Terragni – da una critica al funzionalismo del Movimento Moderno agli sforzi speculativi atti a definire il “vero” modernismo attraverso le analisi di esempi pre e post bellici – pochi, dice Eisenman – che hanno davvero interpretato l’episteme modernista in architettura. Tra queste, la dimostrazione dell’autoreferenzialità della Maison Dom-ino. O attraverso la riproposizione di momenti che hanno contribuito a smantellare l’assoluta egemonia del funzionalismo – come i testi, i progetti e l’operazione intellettuale di Philip Johnson, cavallo di troia del Movimento Moderno.
Il libro snocciola dichiarazioni-manifesto e si intrattiene su lente e meticolose descrizioni degli oggetti analizzati, il cui contenuto si compone di parole e disegni ortogonali e assonometrici, quei diagrammi di studio e progetto che alla stregua delle argomentazioni verbali scrivono dense pagine di testo. L’obiettivo in questa prima fase è lo scardinamento della nozione classica e antropocentrica che investe la relazione tra soggetto e mondo oggettuale, liberando l’architettura dall’ansia di rappresentare qualsiasi cosa che sia esterna a se stessa. Ed è proprio il sistema notazionale e grafico, insieme all’assorbimento di teorie contemporanee a far evolvere il pensiero di Eisenman verso l’architettura testuale. Il passaggio si esplicita nel capitolo 12, “Rappresentazioni del dubbio”.
Diventa allora chiaro che lo scopo dell’architetto scrittore – dopo aver ridefinito l’architettura modernista postfunzionalista attraverso una propria strumentale rilettura dell’esperienza moderna – è quello di fondare una architettura postmodernista che, ancora, si differenzi dal postmoderno dei suoi colleghi. Per far questo deve metter in campo un ulteriore sforzo intellettuale che da un lato argomenti “La fine del classico. La fine dell’inizio, la fine della fine” e dall’altro sposti l’attenzione dall’oggetto (futile) e dal suo autore al processo generativo dell’oggetto stesso.
È l’architettura testuale, che si basa sulla scomposizione e la dislocazione, a superare sia il classicismo che il modernismo. Di nuovo, sia i precedenti storici che il lavoro dello stesso Eisenman sono “misinterpretati” per tentare di chiarire come l’architettura possa accettare il testo come propria procedura formale. Così l’opera di Mies, a cui come per gli Smithson e Stirling è dedicato un intero capitolo di puntigliosa descrizione, era inconsapevolmente testuale. E anche le prime case di Eisenman, erano inconsciamente testuali. E’ però iniziata la stagione, annuncia Eisenman, in cui il progetto si fonderà consapevolmente sull’idea di un testo che disloca le relazioni e i significati convenzionali e istituzionalizzati dell’architettura, non negandoli ma riducendone l’autorità sui processi generativi. L’ultimo capitolo è quindi un saggio breve ed ermetico intitolato “Blue Line Text” – cioè l’ultima bozza prima di andare in stampa – e prefigura un futuro progettuale, quello dello studio Eisenman degli ultimi vent’anni, di cui oggi siamo testimoni.
E mentre la Città della Cultura di Santiago de Compostela, tra critiche e apprezzamenti, rimane incompiuta, c’è da un po’ di tempo nell’aria un ritorno al formalismo delle origini, a partire di nuovo dallo studio di antecedenti illustri. Così, uno dei libri più recenti di Eisenman è di nuovo una raccolta dei diagrammi analitici – questa volta ad opera dei suoi studenti del corso di Yale – di una selezione di Ten Canonical Buildings 1950-2000 (o The Formal Basis of Modern Architecture “reloaded”). Inside Out – ricollocato in dialettica proprio con altri due recenti prodotti editoriali, Ten Canonical Buildings da un lato (2008) e la pubblicazione tarda (2006) della tesi di dottorato dall’altro – trasmette quindi un pensiero che si inserisce in un evidente revival di certe posizioni di cui Eisenman è stato certo il traghettatore nel dopoguerra, e che passa per la ricomparsa nei progetti e nelle ricerche di nuove generazioni di studenti e architetti di un certo tipo di notazione grafica; per un ritorno allo studio “da vicino” degli antecedenti in un modo strumentale, talvolta opportunistico, ma allo stesso tempo meticoloso e ossessivo; per un ribadire teorico dell’architettura come entità assoluta.
Ecco allora che il libro tradotto e riproposto da Quodlibet potrà essere un altro di quei testi che i “New Ancients” italiani potranno tenere sotto braccio e su cui riaprire conversazioni che tornano di moda, in un certo senso con sollievo, ma con l’aspettativa che la resistenza del formalismo e dell’assoluto disciplinare così come concepito da Eisenman abbia compiuto una propria maturazione e che si possano compiere ulteriori salti concettuali. Tra questi, per esempio, la rimessa in campo dello studio della città da parte dei sostenitori dell’autonomia dell’architettura. Gli sforzi intellettuali proposti in Inside Out, infatti, lasciano un vuoto in questo senso e, anzi, sembrano amplificare la distanza tra le discipline dell’urbanistica e dell’architettura. La parola città è quasi del tutto assente nei 19 capitoli – se non nell’introduzione al libro di Rossi – e, quando emergono, le questioni urbanistiche vengono subito reindirizzate all’interno del dibattito architettonico.
L’introduzione alla versione americana dell’Architettura della Città, undicesimo capitolo del libro, raggira di nuovo l’ostacolo. È perché, in quel momento, la preoccupazione tutta rivolta ad annullare la resistenza interna all’architettura ad abbandonare la propria propensione di rappresentare riferimenti esterni, non lasciava spazio ad un dibattito esplicito sulla città? Oppure è più corretto dire che la questione della città in Eisenman è anch’essa interpretata attraverso le stesse tattiche di dislocazione testuale proposte per la ridefinizione dell’architettura? Il passo è da fare per una riconciliazione tra la teoria della forma autonoma e la città reale che, sia pure definita come artefatto formale autonomo e di per sé intelligente nella propria adattabilità, è una struttura ancora più resistente – rispetto all’oggetto architettonico – ad annullare il proprio rapporto con gli avvenimenti economici e politici che la coinvolgono.
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