Project Japan.
Metabolism Talks…, Rem Koolhaas, Hans Ulrich
Obrist, a cura
di Kayoko Ota
con James Westcott,
Taschen, Köln 2011 (pp. 720,
€39,90)
Movimenti del pensiero
Siamo andati in Giappone per diversi anni, a dispetto
del fatto che siamo architetti moderni—o forse a causa
dei modi attraverso i quali gli architetti moderni,
da Bruno Taut a Wright, da Gropius ad altri, hanno
propagandato l'architettura classica di Kyoto.
Ogni generazione di architetti occidentali ha visto
nel Giappone ciò che voleva vedere.
Robert Venturi, Denise Scott Brown
Due "naif" in Giappone (1996), 2000
Lo spazio storico che corre tra la fine dei ciam
e l'affermarsi di quella che è stata chiamata
architettura postmoderna è uno delle zone
franche più interessanti del secolo scorso: mentre
in occidente il modernismo sembrava collassare a
causa della manovra a tenaglia del Team 10, da un
lato, e dei neo-formalisti (Venturi, Rossi, Ungers, il
primo Eisenman) dall'altro, mentre (ri)spuntavano
tentazioni populiste (Rudofsky, De Carlo), Pop (Archigram) o radicali (Superstudio, Haus Rucker-Co
etc.), il modernismo rialzava la testa in altre zone
del pianeta, con una forza tale che l'Europa aveva
conosciuto solo all'inizio del secolo breve, vale a dire
durante la nascita delle avanguardie nel 'periodo
eroico dell'architettura moderna'.
Sarà un caso, ma uno dei testi più completi fra i non
molti che ultimamente hanno cercato di restituire
questo periodo aggrovigliato, Superarchitecture di
Dominique Rouillard [1], si conclude sulla figura di
Rem Koolhaas. Non è una scelta molto originale, in
verità, visto che ormai la centralità dell'architetto
olandese è innegabile e durevole: il decennio che ci
siamo appena lasciati alle spalle si è aperto con il
conferimento del Pritzker Prize (nel 2000) e chiuso
con il Leone d'Oro alla Biennale di architettura,
senza contare l'aumentare della sua azione
professionale e accademica, da Harvard allo Strelka
Institute di Mosca. In ogni modo, nel discorso di
accettazione dello scorso anno, Koolhaas dichiarava
che era un onore ricevere il premio a Venezia e proprio da quel direttore (Kazuyo Sejima), perché le
due culture nazionali a cui si sente più legato sono
quella italiana e quella giapponese.
Ebbene, Project
Japan dimostra che non si trattava solo di parole di
circostanza. Il volume, varato nel 2005, pur avendo
al centro i metabolisti, analizza il contesto culturale
e le vicende giapponesi fra il 1940 e il 1985, ma con
al centro il decennio 1960–70 che, grosso modo,
ha visto consumarsi la parabola del Metabolismo,
considerato qui come l'ultimo movimento di
avanguardia: il suo manifesto è dunque anche
l'ultimo del modernismo tout court. Dopo il
Metabolismo ci saranno solo neoavanguardie,
radicali o neorazionaliste, ma non più moderniste
(questa tesi è condivisa da Isozaki, che pure non ha
mai fatto ufficialmente parte dei metabolisti).
L'Epica Metabolista
Il volume, ad opera di Rem Koolhaas, Hans Ulrich Obrist e numerosi collaboratori, traccia la traiettoria di uno dei movimenti più rilevanti e meno compresi del Ventesimo secolo.
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- Manuel Orazi
- 13 ottobre 2011
Come si spiega che un architetto tanto affermato e impegnato dedichi sei anni a una ricerca di 700 pagine? Certo, si tratta di un'opera collettiva: Koolhaas qui si avvale di un co-autore d'eccezione come Hans Ulrich Obrist (il suo Guattari), e di collaboratori numerosi quasi come in un'orchestra sinfonica: i curatori Kayoko Ota e James Westcott, fotografi e ricercatori, il team dello studio amo, e i contributi di Toyo Ito, Hajime Yatsuka, Charles Jencks e altri ancora. Il motivo di una ricerca così estesa, che porta alla luce degli occhi occidentali una valanga di documenti e progetti in gran parte inediti anche a causa della differenza linguistica, credo si possa leggere nel prologo che Koolhaas ha scritto lo scorso anno per un suo saggio pubblicato in italiano e poi in spagnolo, Singapore Songlines: 'Nel 1995 ho cominciato a insegnare a Harvard… quel che volevo studiare era in particolare il declino dell'influenza dell'Occidente nella formulazione della città, iniziando a fare ipotesi sulla natura delle modernità non-occidentali emergenti in Africa, nel mondo arabo e in Asia, che ovviamente determineranno questo secolo' [2]. Dopo il libro su Lagos (annunciato su Amazon, ma ancora non distribuito) e i tre dedicati al Golfo Persico [3], ecco allora che Project Japan chiude questa singolare trilogia che complessivamente guarda al futuro della città nel xxi secolo. E il Metabolismo è stato senza dubbio un movimento preoccupato di traghettare il Giappone nel futuro, a cominciare da Tange, che ha svolto un ruolo primario nella costruzione dell'immagine e delle infrastrutture del Giappone moderno (Kurokawa poi cominciò a organizzare conferenze di futurologia a intervalli regolari).
A differenza però degli altri libri collettivi di Koolhaas, tutti costruiti sulla falsariga di S,M,L,XL e Content, vale a dire ipertesti più che testi, provocatori assemblaggi di documenti, interviste e brevi riflessioni intervallate da progetti e immagini di ogni genere (provenienti dalla cronaca, dalla pubblicità, dalla cultura popolare oltre a grafici, tavole sinottiche, diagrammi), questo libro sul Giappone è molto più ordinato e chiaramente strutturato grazie anche alla grafica di Irma Boom: a parte le due prefazioni degli autori, si susseguono nove interviste e altrettanti approfondimenti tematici, con una sola eccezione della ristampa, purtroppo non leggibile, di tutte le pagine del libro autoprodotto [4] in occasione della World Design Conference tenuta a Tokyo nel 1960, quando cioè i metabolisti poterono presentarsi a una platea internazionale di assoluto rispetto, abilmente organizzata da Kenzo Tange e dal suo fido collaboratore Takashi Asada (fra gli italiani spiccano Munari, Maldonado e Alberto Rosselli) [5].
Dopo il libro su Lagos (annunciato su Amazon, ma ancora non distribuito) e i tre dedicati al Golfo Persico, ecco allora che Project Japan chiude questa singolare trilogia che complessivamente guarda al futuro della città nel xxi secolo.
La figura di Tange svetta su tutti come un padre
non autoritario, le cui grandi qualità di costruttore e
pensatore si esplicarono certo attraverso il clamoroso
piano di Tokyo del 1960, ma anche e soprattutto
attraverso la sua sapiente scelta dei collaboratori.
Come recita un antico proverbio giapponese: 'Sotto
un generale forte non vi sono soldati deboli'. Essendo
Tange morto nel 2005, proprio all'inizio della ricerca
per questo libro, vengono intervistate qui le sue due
mogli e il figlio Noritaka, che ha preso le redini del
suo studio, perché giustamente 'senza Tange, nessun
metabolismo', ponendo domande anche di carattere
antropologico e a volte di scavo psicologico. Questo
vale anche per le interviste a Isozaki, Kikutake,
Kawazoe, Maki, Kurokawa, Ekuan e Shimokobe,
quasi che Koolhaas volesse ricostruire mentalmente
l'avventura metabolista come fosse un film e non
solo la parabola di un movimento d'avanguardia. A
qualcuno il tono a volte ironico delle conversazioni
potrebbe ricordare i libri d'intervista che alcuni
registi hanno dedicato ai loro maestri, come quello
di Truffaut su Hitchcock o di Bogdanovich su
Orson Welles, anche se qui s'intervista un intero
movimento (resta però il rammarico per l'assenza di
Masato Otaka, figura chiave di teorico e progettista,
vettore di collegamento con l'Europa, amico di Yona
Friedman e del 'puparo' Shimokobe, il metabolista
che promosse i suoi ex compagni dall'interno della
poderosa macchina amministrativa nipponica,
che è una delle scoperte più importanti del libro).
Del resto, le domande che Koolhaas pone agli
interpellati, quasi tutti architetti, sono spesso
domande autobiografiche, che cioè sembrano poste a
se stesso: quando chiede a Maki, a proposito del suo
lungo progetto per gli Hillside Terrace a Tokyo: 'Ciò
che mi piace è che qui le ambizioni sono così sottili
che ogni tipo di spettacolo scompare. Diresti che è
vero per il tuo lavoro in generale che stai cercando
di ottenere sempre di più un effetto sottile o no?';
oppure quando chiede a Kurokawa: 'Ripercorrendo la
tua carriera oggi e il modo in cui hai esteso il campo
architettonico negli anni '60 con le apparizioni
televisive, le mostre e gli eventi, diventando una
figura pubblica, pensi che tutto ciò facesse parte
dell'idea di portare la vita dentro l'architettura?',
pone quesiti su temi forse contraddittori, ma certo
parte della complessa personalità koolhaasiana.
Basti pensare alla differenza abissale che corre fra il
progetto neometabolista di oma per un iper-edificio
a Bangkok (accostato nel libro a uno di Kurokawa
per Tokyo del 1997, p. 694) e quello in costruzione
per la borsa valori di Shenzhen, che sembra invece
uscire direttamente dalle pagine di Groszstadt
Architektur di Hilberseimer.
Ma l'interesse koolhaasiano verso i metabolisti
non può che essere autentico perché i temi da loro
indagati sono oggettivamente quelli da sempre
ricorrenti nel pensiero e nell'opera dell'architetto
olandese: la tabula rasa, la congestione, la Bigness,
il "fuck the context" [6], il movimento [7] etc., oltre al
fatto che in seguito alla loro celebrità raggiunta con
l'Expo del 1970 di Osaka (dove si mise in pratica ciò
che Friedman e il suo geam o Price o gli Archigram potevano solo sognare), sono stati proprio Tange &
Co. a spingersi in quei territori poco noti in cui oma
e tutti i più grandi studi occidentali si sono spinti
negli ultimi anni: l'Africa, il Medio Oriente e il resto
dell'Asia (irresistibile la foto del sempre impeccabile
Tange in Arabia Saudita vestito da beduino, p. 592).
La diaspora professionale fu così estesa e felice che
Reyner Banham nel 1985 parlò addirittura di una
'giapponesizzazione' [8] dell'architettura mondiale
(Italia compresa, visto che qui Tange ha lavorato a
più riprese: a Bologna, Catania, Napoli, Milano e, fino
agli ultimi suoi giorni, per il piano di Jesolo).
Del resto Koolhaas si era occupato di loro già nel
1995, quando non erano più di moda, nel saggio
su Singapore dove inavvertitamente le teorie
soprattutto di Maki vennero realizzate da alcuni
loro seguaci locali (William Lee e Tay Kheng Soon) e con una dimensione e una rapidità tale che Maki
dovette ammettere 'Noi lo abbiamo teorizzato e voi
lo avete costruito…' (pp. 636-637).
Se Project Japan non è un libro di storia, come è
affermato più volte qua e là, e se non è un catalogo,
allora che cos'è? In un periodo in cui le ricerche
sull'architettura sono divaricate fra quelle storiche
che tendono verso deliri filologici e autoreferenziali
(per gli storici) e sparuti instant-book di architetti
allegramente autocelebratori e superficiali, sarebbe
forse il caso di recuperare lo strumento della critica
operativa di cui Project Japan è un innegabile e
alto esempio, oltre a essere una descrizione di
movimenti del pensiero architettonico come non se
ne vedeva da anni.
Manuel Orazi
NOTE:
1. Dominique Rouillard,
Superarchitecture. Le futur
de l'architecture 1950-1970,
Éditions de la Villette,
Paris 2004.
2. Rem Koolhaas, Singapore
Songlines. Ritratto di una
metropoli alla Potemkin… o
trent'anni di tabula rasa, a cura
di Manfredo di Robilant,
Quodlibet, Macerata 2010, p. 7.
3. The Gulf, Lars Müller, 2006;
Al Manakh, Columbia University
GSAPP, 2007; Al Manakh Cont'd,
Volume no. 23, 2010.
4. N. Kawazoe, K. Kikutake,
M. Otaka, F. Maki, K. Kurokawa,
Metabolism 1960: Proposals for a
New Urbanism, Bijutsu
Shuppansha, Tokyo 1960.
Il volume è molto simile a
L'Architecture mobile di Yona
Friedman, il manifesto ciclostilato del Groupe d'Etude
d'Architecture Mobile (geam)
che fra il 1958 e il 1964 circolò
per il mondo spontaneamente,
senza un editore e molto prima
di Amazon.
5. Genero e socio di Gio
Ponti, esperto di questioni
tecnologiche e di design,
Rosselli forse era
un ambasciatore in incognito
di Domus per l'occasione.
6. Rem Koolhaas,
intervistando Isozaki, p. 51.
7. Kisho Kurokawa, p. 383.
8. Reyner Banham,
The Japonization of World
Architecture, in aavv,
Contemporary Architecture of
Japan 1958-1984, a cura di
R. Banham e Hiroyuki Suzuki,
Rizzoli International, New York
1985, pp. 18 sgg.