di Michela Rosso
Deserti americani, Reyner Banham, Einaudi, Torino 2007 (pp. 212, € 19,00)
Che ci fa uno storico dell'architettura nel
bel mezzo del deserto del Mojave ai
confini della California con il Nevada?
Qui, dove l'unico tessuto urbano è quello
delle autostrade interstatali e la presenza
dell'uomo è testimoniata da qualche
pompa di benzina e un paio di motel
scalcagnati, mentre un segnale stradale
dà utili informazioni all'automobilista:
"Kelso 34 miglia, nessun'area di servizio.
Prossima area di servizio a 68 miglia"?
A bordo di una V8, in testa uno Stetson
sporco e sgualcito, Reyner Banham sta
percorrendo la Interstate 15 tra Los
Angeles e Las Vegas, diretto a sin city: è il
febbraio 1968, come molti della sua
generazione è un fan della cultura pop,
affascinato dalle luci intermittenti al neon
e dalla lunga carrellata segnaletica dei
saloon e dei casinò della capitale
mondiale della dissoluzione dei costumi,
sorta agli inizi dell'Ottocento come
abbeveratoio lungo l'Old Spanish Trail.
Ma alle porte di Baker, un abitato senza
molte attrattive sulla rotta Barstow-Las
Vegas, è quasi costretto a deviare, rapito
da un'atmosfera di esotismo polveroso,
un paesaggio talmente lontano dalle
precedenti esperienze, da lasciare in lui
un marchio indelebile. Ben presto diventa
un devoto del deserto. Le valli
attraversate dalla Interstate 15 sono
larghe in media 25 km, gli spazi sono
incommensurabili, il divario con l'universo
popolato di muffe e brughiere della sua
infanzia nel Norfolk non può essere più
profondo.)
È qui, nel Mojave, attraversato
dall'omonimo insignificante rigagnolo,
che Banham riceve il battesimo del
deserto, spazio cinematografico
prim'ancora del cinema, luogo prediletto
da registi e scrittori. Molte immagini della
fantascienza provengono da qui, qui
sono avvenuti i primi avvistamenti di Ufo
e sempre qui sono state fatte esplodere
le prime bombe atomiche. Qualche
miglia più a sud c'è l'oasi di Kelso, un
punto di rifornimento d'acqua, occasione
eccellente per studiare il rapporto tra
l'uomo e l'ambiente arido, una stazione
costruita dalla Union Pacific Railway in
stile coloniale spagnolo.
Anche in un ambiente apparentemente
vergine, quasi lunare c'è materiale per lo
studioso: pozzi vuoti, miniere
abbandonate, architetture ferroviarie,
stazioni di servizio, alberghi e locande,
come il Furnace Creek Inn, situato poche
miglia a ovest dal celebre Zabriskie Point,
nella Death Valley, circondato da un
palmeto che gli conferisce l'aspetto
naturale di un giardino di Beverly Hills.
Costruito sui terrazzamenti di vecchie
miniere di borace, un cristallo morbido
bianco usato nella fabbricazione di
saponi e detergenti, è un'altra delle molte
minime testimonianze del passaggio
dell'uomo in questo luogo
apparentemente lontano da tutto: segno
di un turismo recente reso possibile
dall'automobile, ma anche del tramonto
di un'industria estrattiva un tempo
fiorente. E sono proprio i più minuscoli
segni di civiltà a catturare l'interesse del
viaggiatore: una roulotte parcheggiata, le
impronte di pneumatici sulla sabbia, i
tralicci dell'alta tensione. La frase
secondo cui "il deserto è là dove si trova
Dio e non si trovano gli uomini" non ha
molto senso per Banham, intento
piuttosto a capire cos'abbia a che fare
l'uomo con l'esistenza stessa del
deserto.)
Ma il deserto è anche stato il luogo ideale
dell'utopia e di alcune versioni più radicali
di essa: è infatti nel deserto dell'Arizona,
che due architetti come Frank Lloyd
Wright e Paolo Soleri trovarono,
giungendo a risultati pressoché opposti,
qualcosa di molto simile a un foglio
bianco su cui tracciare un nuovo inizio,
dar sfogo alle proprie diverse fantasie di
comunità sgombre da pregiudizi e libere
dal giogo della proprietà terriera.
Grazie a uno sguardo profondamente
lucido, consapevole dell'armamentario
culturale con cui si accinge a percorrere
un territorio del tutto straniero, ma
sempre al riparo dai luoghi comuni,
Banham riesce in questo libro a
correggere alcune idee acquisite sul
deserto americano, a sfatare alcuni dei
suoi miti più resistenti, preoccupato della
deriva disneyana che processi di
eccessiva museificazione di questo
habitat possono innescare, critico nei
confronti di coloro che in questo luogo
ambiscono a "ritrovare se stessi", ma
ugualmente severo nei confronti di un
ecologismo di maniera che vorrebbe
imbalsamare il deserto.
Il libro uscito in lingua originale nel 1982,
frutto di una conoscenza del deserto del
sudovest americano accumulata in più di
dieci anni di esperienza sul campo, viene
tradotto solo oggi in italiano: dal 1994 il
deserto del Mojave, inizio e fine di questo
affascinante racconto, è riserva nazionale
e, dal 2005, la stazione di Kelso è stata
trasformata in visitor center.
Michela Rosso
Docente di Storia dell'architettura a Torino
Il critico nel deserto
Deserti americani, Reyner Banham, Einaudi, Torino 2007 (pp. 212, € 19,00) Banham riesce in questo libro a correggere alcune idee acquisite sul deserto americano, a sfatare alcuni dei suoi miti più resistenti, critico nei confronti di coloro che in questo luogo ambiscono a "ritrovare se stessi", ma ugualmente severo nei confronti di un ecologismo di maniera che vorrebbe imbalsamare il deserto.
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- 05 dicembre 2007