Quando i rifiuti diventano arte TRASH rubbish mongo, Edizione italiana e inglese, Lea Vergine, Skira, Milano 2006 (pp. 180, € 15,00)
Con la sua colta ed elegante scrittura, Lea Vergine in questo volume rielabora e amplia il saggio redatto con l’omonimo titolo per la mostra tenutasi al MART di Rovereto nel 1997. Avverte subito che il libro, ricchissimo di illustrazioni, “non è un inventario di orrori, né una tebaide simbolista: non è un censimento degli autori che hanno usato scorie… È una sfilata, uno sbandamento di apparizioni, di metafore e di epifanie memorabili straziate o grottesche del vissuto o dell’immaginario”. Dopo le avanguardie storiche, e soprattutto dopo Bataille e Dubuffet, la sacralizzazione dei rifiuti è presente non soltanto nelle arti visive, ma in tutta l’area della cultura, amalgamando temi alti a quelli bassi.
“La spazzatura (trash) diventa linguaggio mediante opere nelle quali il rifiuto si fa cultura visiva e non solo” afferma Lea Vergine, che si chiede perché gli artisti del nostro secolo abbiano adoperato e adoperino – in diversi casi sistematicamente, in altri episodicamente – i rifiuti. Se nelle avanguardie storiche l’uso dello scarto e del rifiuto era provocazione (Schwitters, Duchamp, Picasso) oggi rileggiamo queste opere come “sapienza formale”, in un percorso che va dal Futurismo, al Dada, al Surrealismo. È l’uso contemporaneo che pone dubbi e problemi: negli anni Sessanta-Settanta il trash è stato privilegiato, con una buona dose di ironia e di critica sociale (Fluxus, Poesia Visiva, Nouveau Réalisme, Pop Art).
Negli anni Ottanta-Novanta gli oggetti usati, scaduti o da pattumiera immessi nelle opere svelano “una sorta di esorcizzazione contro i nostri ulcerosi disagi di fine secolo”. I rifiuti sono ibridati, incorporati nell’opera che diviene immagine nuova e intensa (Alberto Burri, Antoni Tàpies, Meret Oppenheim, Jannis Kounellis, Louise Bourgeois, Ben Vautier tra altri). Oggi si elegge il brutto a una nuova bellezza: nel mondo postmoderno non esiste più l’opposizione bello/brutto, poiché i due valori si sono mescolati perdendo le caratteristiche distintive. L’uomo contemporaneo vive in una condizione di sopraffazione degli oggetti di consumo, tra film splatter e filosofia cyborg, dove nulla del quotidiano viene eletto o distinto, ma direttamente assorbito. Come ha sottolineato Guido Viale citato dalla Vergine, i rifiuti sono un documento diretto delle abitudini e del comportamento di chi li ha prodotti; cioè testimonianze dei nostri bisogni. Memorie dell’umano, con tutto il carico di fascinazione e di catastrofismo, gli artisti li rielaborano e fanno assurgere a immagine dominante.
Nulla è indegno di essere sacralizzato nell’opera d’arte, dove gli oggetti trash sono inseriti, incollati, plastificati: Lea Vergine cita le garze sporche di sangue della Orlan; le camere d’aria sgonfie – ovvero viscere – di Carol Rama; i muri di valigie usurati di Fabio Mauri; l’immersione nel macabro e nel sadico di Cindy Sherman e di Andres Serrano; le paccottiglie di Arman; il gelido blocco degli oggetti di Spoerri e di César; le perverse menzogne di Maurizio Cattelan. L’accostamento al degrado, anche fisico, risponde alla necessità di confronto con la paura, sempre onnipresente, della morte. L’arte contemporanea è l’eco e il diario del nostro tempo, della sua violenza, aggressività, fragilità, nostalgia e delle sue lacerazioni; “il libro può essere letto come una grande metafora della vita e dell’arte stessa”. Parte integrante è l’ampia sequenza delle illustrazioni di opere sul tema, poste anche in ordine cronologico, e l’antologia di scritti frammentari ma fondamentali di alcuni tra gli artisti che più hanno usato nelle loro opere i rifiuti e gli scarti.
La storica provocazione futurista è documentata da uno scritto del 1917 di Enrico Prampolini che invoca la totale sostituzione degli elementi pittorici convenzionali con elementi reali (oggetti); tematica ripresa da Kurt Schwitters nel 1919 che descrive i “quadri di pittura Merz” quali assemblaggi di tutti i materiali possibili e immaginabili. Moholy-Nagy, affascinato dal paesaggio industriale delle città americane, nel 1944 ha descritto le sue passeggiate urbane, durante le quali raccoglieva pezzi usati di macchine, viti, bulloni che poi inseriva nei suoi quadri. Robert Rauschenberg nel 1959 mette sullo stesso piano la possibilità di dipingere un paio di calzini e una tela; Mimmo Rotella nel 1971 parla della disinvoltura con la quale recupera frammenti di realtà che poi diverranno i suoi quadri; César nel 1983 dichiara che anche la spazzatura ha una sua storia, perché si trovano oggetti che hanno vissuto, e che hanno quindi una certa bellezza.
In tempi più recenti, nel 1997 Antoni Tàpies difende l’uso della paglia nei suoi quadri. Afferma che gli artisti non dipingono più “le cose celesti” ma in cambio si eccitano con la paglia: “ora l’immaginazione dello spettatore può mettersi in moto e esercitare i suoi diritti”.
Mirella Bandini Storica dell’arte