di Manolo De Giorgi
Joe Colombo. L’invenzione del futuro, AA.VV. SKIRA, Milano, 2005 (pp. 302).
Dopo la bella mostra del 1995 a Bergamo curata da Vittorio Fagone sui due Colombo (Joe e Gianni), si visita la Triennale incuriositi da questa nuova personale su Joe proveniente e prodotta dal Vitra Museum. Perché il Vitra e i tedeschi in questa iniziativa?, ci si chiede, sospettosi di una certa casualità nel collegamento tra i due mondi. Nel parterre du roi di designer e critici riuniti nel video di Deidi Von Schaewen a produrre testimonianze sul progettista il quesito non trova risposta.
Tutti, piuttosto preoccupati a posizionarsi storicamente più che a centrare la figura di Joe Colombo, fanno coincidere il giudizio con l’era felice del design italiano e tanto basta. Il commento più sintetico viene da Lisa Ponti quando dice: “Era un ottimista, non un utopista”. Sottile differenza che spiega l’enorme produzione del designer milanese interrotta solo dalla prematura scomparsa a 41 anni, e che avanza dubbi sulla sua carica utopica se per utopia si intende quella visione universalistica che il più delle volte arriva a produrre la profezia di una nuova società estetica. Pur avendo sempre affrontato il design dal versante dell’innovazione tipologica e della sperimentazione sui materiali questi due termini non hanno prodotto necessariamente un’utopia.
Si poteva pensare prima di questa mostra a un designer quasi americano vicino alle prefigurazioni totali di un Geddes o di un Loewy e invece la sorpresa più grande è che non ci sono tracce degli Usa nel lavoro di Colombo. È una piccola opera d’arte il video di 3 minuti e 14 secondi sul progetto della Total Furnishing Unit del 1972 per la sezione progetti ambientali del “New Domestic Landscape” con regia di Gianni Colombo e luci di Livio Castiglioni dove i commenti astro-siderali della colonna sonora accompagnano i comportamenti di una giovane donna vista come una sagoma in ombra ad operare in quello che viene descritto come un “blocco compatto di cellule singole collegabili fra loro”.
È quasi un documento di costume il filmato di 6 minuti prodotto dalla Bayer per “Visiona 69” in cui il progetto di habitat ruota attorno alla centrale “cellula notte” invasa dalla famosa bombatura della “cellula bagno”. Ma entrambe sono visioni aleggianti nell’aria e perfettamente realizzabili tanto che potrebbero trovare un produttore un attimo dopo. E infatti lo trovano: in Bernini, in Castelli, in Sormani. Se queste prefigurazioni ambientali le si confronta con il Karasutra di Bellini, con il Microenvironment di Sottsass o con il Container per emergenze di Zanuso, presenti nella stessa mostra, Colombo sembra collocarsi in un punto molto più vicino alla cultura delle aziende. Colombo sa troppo bene che cos’è la produzione per pensare in termini che possano anche solo per un momento metterla fra parentesi.
È piuttosto l’interprete di un futuribile immediato, di un futuribile del giorno dopo, di quel futuribile possibile che solo in quegli anni ha visto procedere, in esperienze a sbalzo sul vuoto, industriali e progettisti con lo stesso grado di rischio e alla stessa velocità: di qui una concreta eredità di utopie tutte realizzate. La mostra si sviluppa secondo un allestimento che va da un buio intenso verso una sempre maggior luce. In una prima sala dai toni notturni mobili e luci sono ospitati su tre grandi zatteroni a semisfera collocati al centro, due dei quali dedicati alle sedute, uno alle luci. Riviste tutte insieme le sedute stupiscono, divertono e sorprendono arrivando però a dimostrare tutta la loro età per come si leggono oggi certe forzature anche costruttive, mentre è proprio nell’illuminazione dove Colombo imprime alla cultura del progetto una violenta accelerazione.
Qui egli realizza la perfetta consonanza tra sorgente luminosa, supporto, e area di interazione della luce dimostrando di aver capito perfettamente il nuovo rapporto in evoluzione tra punto luce e utente. Procedendo, segue la più nota sezione delle proposte ambientali, degli environments e dei mobili compact, dove anche nell’eccesso del tutto integrato nessun singolo particolare costruttivo gli sfugge. Infine si approda a una più larga sezione dedicata al suo product design. Il bianco e il nero in forma di laminato vi predominano proiettandoci in un allestimento dall’aura chimico-farmaceutica per nulla italiana. Del resto nel tragitto della mostra gli indizi si sono andati assommando: la plastica, la grande chimica delle fibre artificiali, lo stampaggio a iniezione, i rapporti con la Bayer, con la Hoechst, con la Rosenthal, il ricorso a mobili in pannelli stampati in Abs, il bianco e il nero ora sempre più predominanti nei suoi prodotti.
Tutto fa virare Colombo verso una latitudine nordica collocata in una imprecisata regione tra Germania e Danimarca in una formula che mette insieme una piccola dose di Ulm + un po’ di ‘disegno’ italiano + un immaginario dell’oggetto quasi fiabesco e ‘ghiacciato’. La figura che più gli assomiglia è Verner Panton (entrambi sono stati segnati nella vita da un filo di barba a coronare il volto) la cui gioia ed ottimismo progettuali hanno sempre camminato concretamente con ’industria come compagna di viaggio. È un sogno nordico di allegria attraverso il quale il collegamento tra il Vitra e la mostra risultano perfettamente spiegati.
Manolo De Giorgi Docente di Architettura degli Interni al Politecnico di Milano
Joe Colombo l’ottimista
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- 20 gennaio 2006