di Cristina Bianchetti

La città del xx secolo, Bernardo Secchi Laterza, Bari-Roma, 2005 (pp. 204, Euro 14,00).

A metà anni Ottanta Bernardo Secchi scrive un testo intitolato al racconto urbanistico, svelando la pervasività, le ragioni e le implicazioni del genere narrativo nella riflessione disciplinare. Così facendo raccoglie qualcosa che era nell’aria. La coesione è ciò che la narrazione a un tempo esprime e costruisce, scriveva negli stessi anni Ricoeur. Raccontando se stesse, le culture si creano. L’estensione ai campi poco strutturati delle nostre discipline sembrava legittima. E permetteva di cogliere ben piantato, al centro del racconto, un orientamento pratico, scaturito dalla percezione della comunicabilità di un’esperienza collettiva. Dopo venti anni Secchi sceglie tre racconti per parlare della città del XX secolo. O meglio per trattare del senso che il Novecento ha avuto per la città europea. I tre racconti scandiscono, egli dice, diversamente il tempo, concentrando la nostra attenzione su alcuni momenti solo in parte sovrapposti. Sono dominati dall’angoscia, dalla costruzione di un mondo nuovo, dalla ricerca del comfort. L’angoscia è per la città che perde la propria misura, non è più esperibile nei suoi aspetti funzionali, tecnici, simbolici. Diventa megalopoli. Nell’ultima parte del secolo l’angoscia della crescita si risolve in un’angoscia opposta per il dissolvimento, la nebulizzazione entro forme che solo con qualche aggettivazione si possono chiamare ancora città. La costruzione di un mondo nuovo (il secondo racconto) rimanda a quella che Henri Godard chiama “una grande generazione”: intellettuali come Céline, Bernanos, Giono, ma anche Lurçat, Gropius che hanno fatto l’esperienza della Prima guerra mondiale, quella dopo la quale, scriverà Paul Valery, il tempo e le cose non saranno più gli stessi.

È dall’esperienza della guerra (più ancora che dalle utopie che accompagnano la cultura occidentale) che essi traggono l’idea che il progetto per la città faccia parte di un più ampio progetto per una nuova società, per un “uomo nuovo”. L’individuazione delle dimensioni fisiche del benessere (il terzo) riguarda la ricerca di uno spazio abitabile nel quale non ci sia eccessiva lontananza tra l’io, il suo habitat limitato e irriducibile e il mondo che non ha le sue stesse misure, lo sovrasta. Riguarda la ricerca di una mediazione tra le due parti, come espressione di benessere, eudaimonía, felicità. Il terzo racconto allude alle ricerche condotte sull’alloggio, sulle relazioni che esso intrattiene con ciò che gli è esterno, sulle attrezzature che danno corpo, soprattutto nella seconda parte del secolo, alle politiche del welfare, sulle intersezioni tra i saperi dell’urbanista, dell’architetto, dello psicologo, dell’insegnante, del medico, del biologo, dell’economista e del sociologo.

Nonostante l’enfasi sulla forma narrativa, questo libro difficilmente può considerarsi l’accostamento di tre racconti. È piuttosto una composizione articolata che si sviluppa e ordina la propria materia su piani differenti: un intreccio tra costruzione dei problemi, piani semantici e piani sociali. A partire dal problema di come la dimensione della libertà individuale e collettiva si radica entro uno spazio abitabile e ai concetti che organizzano la nostalgia per il passato e la fiducia nel futuro della città: paura, immaginazione, quotidiano. Dichiarare la forma del racconto per un testo che non è un racconto è il primo interrogativo che l’autore ci consegna. Secchi non è uno storico. La scelta del curatore di una collana di storia della città (Donatella Calabi) di affidare ad un urbanista il volume sul XX secolo non può ascriversi unicamente all’imbarazzo che molti dichiarano per la “storia del presente”, per usare malamente una locuzione resa celebre nelle lezioni del Collège de France degli anni Settanta. È una scelta di campo. Come quelle operate da Secchi nei confronti della sua materia: né exempla, né profili critici. Né, tanto meno, sunti delle molte storie della città. Piuttosto combinazioni di narrazioni che dialogano, implicitamente, con alcune note storie della città europea.

Il secondo interrogativo che il libro ci consegna riguarda la scelta di assumere come interlocutori diretti studi autorevoli, ma indubbiamente tradizionali nel campo della storia della città. Questo in un momento di forte crisi degli studi storici, i quali, meno che mai, riescono a parlarci oggi di città, a restituire qualche idea di insieme, tutti presi dalla convinzione di potersi presentare solo con dimensioni e con consistenza corpuscolare. Il progetto urbano rimane sullo sfondo del libro. Ciò che è specifico del progetto per la città, scrive Secchi, ciò che lo distingue dalle altre politiche è il tentativo di dare una dimensione concreta alla ricerca del benessere e della libertà. L’assenza delle traiettorie di coloro che nello scorcio del XX secolo hanno dato spessore a questa accezione di progetto con il farsi, a volte progressivo, altre inviluppato, delle proprie pratiche, non può passare inosservata.

L’essersi tirati fuori, costruisce il terzo interrogativo, reso ancora più evidente, dalla scelta delle schede intervallate ai tre racconti, che in questo caso riguardano esempi di città conosciute dall’autore attraverso esperienze di progetto. Le forme del discorso, gli interlocutori, la riflessione sulle proprie pratiche: lo sguardo che il libro ci permette di lanciare sulla città europea del Novecento è costituito da questi tre interrogativi, quanto dai tre racconti che propone, avvalendosi di una bibliografia che è tutt’altro che un semplice sfondo. Nel complesso è uno sguardo poco acquietante. Ma anche ben controllato e rarefatto. Come se da quella città fossimo finalmente e definitivamente usciti.

Cristina Bianchetti Docente di Urbanistica al Politecnico di Torino